Mi presento: mi chiamo Carlo Basile, o meglio così ho
creduto di chiamarmi fino all’età di sei anni. Sono figlio di Rocco, boscaiolo,
e Concetta Romeo.
Nacqui
a Ruvulo, frazione di Massarìa, un paesino sul versante tirrenico della
Calabria alle pendici dell’Aspromonte, all’alba del 5 novembre 1894; mia madre mi
partorì nella camera da letto dei miei genitori con l’assistenza di nonna
Adelina, sua genitrice, e della levatrice del paese.
Mio
padre uscì sul balcone di casa e sparò in aria alcuni colpi di fucile per
festeggiare l’evento. Da altri balconi e dalle case sparse intorno al paese
altri colpi risposero in segno di partecipazione e si dice che anche due Regi
Carabinieri di passaggio in paese abbiano esploso alcuni colpi di moschetto.
Il
primo figlio, maschio e in salute. La massima soddisfazione che un padre possa
pretendere.
Nacqui
quindi bene accetto e onorato dalla mia famiglia e dai miei compaesani. La mia
famiglia era conosciuta e molto benvoluta.
Qualche
ora dopo la mia nascita mio nonno Carlo, padre di mio padre, venne a vedermi ed
a reclamare il diritto al nome che per tradizione il primogenito acquisiva dal nonno paterno. Da ciò che so, sembra che mio padre non
abbia tenuto buoni rapporti con il suo genitore per gran parte della sua vita,
forse a ragion veduta o forse per carattere; fatto sta che il giorno stesso tra
i due si scatenò un alterco di tale violenza che la nonna Adele intimò loro di
andare fuori di casa a… rivendicare le rispettive ragioni (“a rompersi le corna” disse in realtà).
Che non fosse certo il momento adatto per riesumare antichi rancori non c’era
dubbio. Che nonno Carlo non fosse tipo da particolari delicatezze era
altrettanto sicuro. Sospetto che mio nonno abbia minacciato mio padre e mio
padre abbia reagito usando me come oggetto del ricatto. Certo è che il litigio
tra i due galantuomini non finì con una pace. Il nonno se ne andò inveendo e, a
quanto mi raccontò mia madre, non venne più a vedermi per diverso tempo, mio
padre giurò che non mi avrebbe mai dato il suo nome. Nei giorni successivi mio
padre fu molto impegnato tra il lavoro e i doveri di ospitalità verso chi
veniva in visita per vedermi e congratularsi. I paesani, al corrente del grave
dissidio intercorso, si guardarono bene dal chiedere il nome del nascituro, e
per un po’ di tempo io fui “u figghiolu”
per tutti. Più di una settimana dopo, qualcuno gli fece notare che sarebbe dovuto
andare al paese a registrare la mia nascita all’ufficio dell’anagrafe. Si palesò
dirompente il problema del mio nome. Mia madre e mia nonna Adelina cercarono di
mettere pace, una intercedendo con mio padre e l’altra con mio nonno, ma né
l’uno né l’altro vollero piegarsi o scendere a compromessi. Mio padre decise
che mi sarei chiamato come il nonno materno suo suocero, Filippo. Doppio sgarbo
a mio nonno Carlo, che, naturalmente, con il caratteraccio che aveva non cuciva neanche con il consuocero, che comunque era morto
da qualche anno. Partì quindi, Rocco
Basile, per Massarìa dove aveva sede l’anagrafe comunale, insieme a due testimoni:
compare Ciccio Malara ‘u furnaru, e
Matteo Nucara ‘u pecuraru. Nessuno dei tre sapeva scrivere, né leggere. Era il 16
novembre 1894, nel primo pomeriggio. Quando si presentarono davanti
all’impiegato comunale, Rocco aveva le idee chiare. Un po’ meno l’impiegato,
seccato per essere stato svegliato e ancora stordito, oltre che dal sonno, dai
fumi del vino che in mattinata gli aveva donato un paesano in segno di gratitudine per un
favore ricevuto. Dopo aver stilato il cappelletto di premessa dell’atto, con le
generalità dei genitori e quelle dei testimoni, guardò in faccia mio padre e
gli fece la fatidica domanda:
-quale nome mettete al bambino?
Rocco
non seppe resistere alla tentazione di rimarcare la sua risolutezza, si voltò
verso i suoi due amici e tagliando l’aria con la mano aperta esclamò:
-non Carlo!
L’impiegato
intinse il pennino nel calamaio e scrisse qualcosa sull’atto. Mio padre si
voltò verso di lui per dichiarare il mio nome: Filippo. Un suono sordo,
dapprima lontano poi sempre più forte e vicino, precedette la sua voce, poi la
terra iniziò a tremare. L’impiegato comunale fu sbalzato dalla sedia, si rialzò
e senza indugio corse fuori dalla stanza, seguito da mio padre e dai due
testimoni. Sembrò passare un’eternità, gli uomini videro case accartocciarsi su
se stesse, intere famiglie fuggirono verso il vicino torrente, un fiume di
fango invase le strade, proveniente da chissà dove. Mio padre riuscì a tornare
a Ruvolo, e trovò la casa ancora in piedi ma vuota. Mia madre, con me in
braccio, la nonna e altri paesani, si era messa in salvo salendo su una rupe
rocciosa alle spalle dell’abitato, un enorme blocco di granito che, si sapeva,
aveva già resistito con successo ad altri spaventosi cataclismi nel corso dei
secoli. I mesi successivi furono tristi. Tutti gli uomini furono impegnati nello
sgombero delle macerie e molte famiglie piansero per i loro morti. La mia
famiglia ne uscì quasi indenne, tutti i
miei parenti si salvarono e le ristrettezze e le difficoltà fecero riavvicinare
mio padre e mio nonno. Ma del mio nome non se ne parlò più, per anni. Mi
chiamavano Carlo e quello fu il mio nome fino al giorno in cui si rese
necessario ottenere un certificato di nascita per l’iscrizione alla scuola
elementare. Quando mio padre si presentò all’anagrafe per richiedere il
certificato l’ufficiale dell’anagrafe aprì il registro dell’anno 1894
miracolosamente intatto, e rintracciò la pagina.
Avrete capito che la gente
semplice come noi non dava una grande importanza alle carte e ai documenti. Per
mio padre il tempo impegnato nelle pratiche di cui non capiva niente era perso.
Nulla di strano quindi che non si sia reso conto che in realtà l’atto di
nascita non fosse stato completato a causa del terremoto. Nessuno aveva firmato
niente. L’impiegato gli spiegò la
situazione e mio padre ne prese atto seccato.
- E quindi adesso come si fa? Mio figlio non
potrà andare a scuola?
L’uomo
pensò che a volte per risolvere un grosso guaio può essere giustificata una
piccola infrazione. Quel maledetto terremoto aveva già dato tanti dispiaceri.
- Conosco bene Ciccio Malara e Matteo Nucara,
entrambi non sanno leggere e scrivere. Ma voi? – chiese.
-Neanche io, per tagliare legna non serve. So
far di conto, però. Quello sì!
-Non ci serve. Invece vi sembrerà strano, ma
che non sappiate scrivere in questo caso è utile. Mettete un segno di croce
qui.
Mio
padre firmò, poi l’impiegato appose una croce sotto il nome di Matteo Nucara e una
sotto quello di Francesco Malara. L’atto era completo. Soddisfatto, l’uomo
stilò il certificato e lo consegnò a mio padre che capì, ringraziò, e
naturalmente senza leggerlo poiché non sapeva farlo, lo portò alla scuola
elementare per iscrivermi al primo anno.
Così,
con un reato commesso a fin di bene, la procedura di ufficializzazione della
mia esistenza in vita fu completata sei anni dopo la mia nascita.
Il
primo giorno di scuola uscii di casa euforico. Fuori della piccola casa che
fungeva da scuola elementare, all’inizio del paese, c’erano già altri bambini,
alcuni più grandi di me. Ci conoscevamo tutti, ovviamente. Il maestro veniva
dalla città, era un signore alto, ben vestito, un paio di grandi baffi neri,
l’orologio nel panciotto e gli occhiali con le lenti rotonde. Si fermò sulla
porta della scuola, e ci spiegò cosa ci stavamo apprestando a fare, cosa
significasse quella fase della nostra vita e quanto fosse importante che tutti
ci impegnassimo ad apprendere ed aiutarci tra di noi a tal fine. Mi piacque. Poi prese un foglio di carta e
leggendolo iniziò a chiamare il primo appello dell’anno. Naturalmente in ordine
alfabetico. Con la A iniziale non c’era nessuno.
-Basile Noncarlo!
Ci
guardò, perplesso. Poichè nessuno rispondeva, andò avanti. Via via che chiamava
i nomi, i miei compagni entrarono in aula. Alla fine rimasi solo, a guardare in
viso il maestro. Lui sulla soglia, ed io tre gradini più in basso.
-Come ti chiami?
Me
lo chiese, ma credo sapesse già che quel Basile ero io.
-Carlo Basile, signor maestro.
-Infatti- disse- ho sbagliato a leggere. Come
vedi anche i maestri non sono infallibili.
Con
un sorriso che non scorderò mai, m’invitò ad entrare. Il primo giorno di scuola fu indimenticabile, un misto di emozioni
difficilmente descrivibili. Tristezza, timore, voglia di scappare… poi
curiosità, interesse, allegria.
Fu
il mio maestro che in seguito ricostruì i fatti e mi raccontò ciò che era
successo. Mi spiegò che una volta adulto avrei potuto, se avessi voluto, fare
modificare legalmente il mio nome, da Noncarlo a Carlo, ma io non ho mai voluto
farlo. Ancora oggi capita che quando qualcuno sente per la prima volta il mio vero nome ci scherzi sopra oppure trattenga a stento l'ilarità. Ma poi, conoscendomi, il nome non conta più.
Ricordate
ragazzi, il vostro nome è importante per voi, senza dubbio. Ma sarà importante
nella vita nella misura in cui saprete onorarlo con le parole e nei fatti. Ognuno
di voi, al termine del percorso d’istruzione seguirà una strada che lo porterà
ad essere parte di qualcos’altro, ad influire sulla vita di altri. Sappiate
essere buoni alunni per potere in futuro essere buoni maestri, di scuola o di
vita, per chi sarà bambino dopo di voi. E adesso iniziamo…
© 2018 Pasqualino Placanica (Tutti i diritti riservati)
Nessun commento:
Posta un commento
Attenzione. Non saranno pubblicati commenti anonimi di qualsiasi tipo.
Pertanto chiunque voglia commentare e non sia autenticato da Google dovrà dimostrare la propria identità all'amministratore del blog, all'indirizzo email paplaca@libero.it