martedì 25 settembre 2018

Italiani brava gente. Storia di orgoglio e pregiudizio.


-Buongiorno, vi pozzu fari ‘na domanda? 
-Certo, e s’a sacciu vi dugnu puru ‘a risposta! 
Ormai è una costante: un ferroviere in pausa che sosta per un’ora sul marciapiede della stazione riceve dalle cinque alle cinquanta richieste di informazioni. Il fatto è che di solito mi chiedono informazioni su biglietti ed abbonamenti ed io non sono in grado di rispondere, non è la mia materia. Io i treni li guido, di aspetti commerciali non ci capisco  quasi niente. Ma sarebbe inutile spiegarlo prima, meglio ascoltare la domanda ed eventualmente indirizzare l’interlocutore verso la persona giusta. Il signore che mi ha interpellato ha, credo, più o meno la mia età.
-Cu ‘stu bigliettu, ‘u pozzu pigghiari ddu trenu? 
Mi mostra un biglietto del Trasporto regionale, mentre mi indica un Intercity fermo al binario a fianco. Questa la so. 
-No, mi dispiace, supra a ddu trenu ci voli n’atru bigliettu. Ma state tranquillu, n’atra menz’ura rriva ‘u trenu giustu. 
-‘U sacciu, ma sapiti chi mi succediu? Pirdìa ’u portafogli cu centocinquanta euro, e restai senza sordi. Ia ‘nta Polizia mi fazzu ‘a denuncia, chi mi fici perdiri ‘nu saccu ‘i tempu. E avi tri uri chi sugnu ccà, ora mi suddìai, mi ‘ndi vogghiu turnari ‘a casa. Pensava chi facendu ‘a denuncia chi pirdìa i sordi mi potivanu fari ‘na carta mi ‘nchianu supra ‘o trenu senza bigliettu e mi pavu poi, quandu turnava ‘a  casa. Ma mi dissiru chi non si poti fari, chi senza bigliettu non si poti ‘nchianari e chi ‘nc’era ‘na multa salata ‘i pavari, si mi truvavunu. Sapiti, jeu non vogghiu passari pi chiddu chi cerca mi faci ‘u furbu, comu fannu sti niri e sti rumeni chi ‘nchianunu e si mmucciunu non mi pavunu ‘u bigliettu. Non tutti, p’amuri ‘i Ddiu, ma a maggior parti si. Si ‘ndi partunu ‘i casa i Cristu mi venunu ‘ccà mi fannu i furbi, mi cercunu ‘a limosina e mi rrobbunu. Jeu sugnu italianu, chiddi chi venunu ccà mi fannu i delinquenti mi si stannu ‘a sò casa. Prima mi rrivunu tutti sti stranieri ‘sti cosi non succerivunu. 
Lo guardo perplesso. Si vede che è una brava persona, non c’è cattiveria in quello che ha detto, ma solo tanto pregiudizio. E comunque è difficile negare che i comportamenti che ha descritto siano veri. Rinuncio ad avviare una discussione sulla materia, ho troppo poco tempo, devo riprendere a lavorare. Ma ha detto di non avere soldi, eppure ha un biglietto: cinque euro e cinquanta centesimi.
-Ma poi ‘u truvastuvu, ‘u portafogli? ‘U bigliettu comu ‘u pavastuvu? 
-Pi furtuna truvai fora ‘nu tassista chi sintìu e mi mprestau ‘i sordi. N’o canusciva mancu. Mi dessi cincu euro, e dumani ci nd’haiu a turnari deci. 
-Capiscìa bonu? Vi dessi cincu euro e dumani ndi voli deci? 
-Si, ma non c’è problema, dumani haiu a turnari, ndi vidimu fora e c’i portu. ‘U sacciu chi sunnu assai, ma aviva bisognu, non mi potiva mentiri mi fazzu discussioni. 
Avevo capito bene. Il cento per cento al giorno di interesse. Per il tassista “benefattore” il termine di usuraio sarebbe riduttivo. Non ho più tempo, devo scappare, ma una domanda al signore la voglio fare sperando che almeno lo faccia riflettere su pregiudizi e stereotipi.  
-Sentiti, ma ‘stu tassista è rumenu, niru… o italianu? 

© 2014 Pasqualino Placanica (Tutti i diritti riservati)

lunedì 10 settembre 2018

La casetta blu.





Non sogno più castelli rovinati, 
decrepite ville abbandonate,
dalle mura tutte crepate
dove ci passa il sole.
Non palazzi provinciali disabitati, 
dalle porte polverose,
dalle vetrate colorate, 
dalle finestre ferrate,
non più.
Era il 1975, frequentavo la terza media e, traendo spunto da questi versi tratti dalla poesia “Una casina di cristallo” di Aldo Palazzeschi, la professoressa di italiano ci assegnò la stesura di un componimento la cui traccia, dopo avere citato i versi, recitava più o meno così: conosci anche tu un palazzo provinciale disabitato? descrivilo e racconta le tue sensazioni in merito.
Ecco, io descrissi proprio quella meravigliosa casa che ogni sabato pomeriggio, ogni domenica mattina, ammiravo da anni per pochi attimi dal finestrino laterale posteriore della già allora vecchia 500 di mio zio, all’andata e al ritorno dalla consueta battuta di pesca del fine settimana. La descrissi, ricordo, esattamente come l’ho trovata oggi, ne sono certo. Perché, lo so che è incredibile, ma non è cambiata per niente. Anzi ricordo che allora aveva le imposte del balcone centrale leggermente aperte, mentre adesso sono chiuse. Solo qualche ruga, come sul viso di una bella donna sorridente che lentamente avanza nella vita, felice di esistere. Descrissi poi le mie sensazioni, quelle di un adolescente che fin da bambino aveva fantasticato su quella casa che seppur abbandonata ed apparentemente irraggiungibile, stretta tra una collina impervia e la statale 106, sembrava gridare al mondo la sua esistenza, la sua voglia di essere nuovamente. Io la vidi così, come un prigioniero isolato, condannata dall’incuria degli uomini a pagare qualche inconfessabile colpa per un tempo indefinito, ma che non si arrendeva e mai lo avrebbe fatto. E poi raccontai della famiglia che vi aveva abitato, di come viveva, del perché era andata via. Di come immaginavo io, che fosse avvenuto tutto ciò. È incredibile e meraviglioso come possa un’immagine (perché quello era allora, un’immagine) scatenare la fantasia di un bambino, e come quella fantasia rimanga viva per sempre, scolpita nella mente al punto tale che, anche quando quel bambino diventa uomo e l’immagine diventa realtà da toccare con mano, nulla cambi nella sua mente. Vedendo le foto della visita alla casetta blu, un’amica mi diceva che lei forse non riuscirebbe ad entrare, per paura di tradire tutti i sogni che aveva fatto da bambina insieme a sua sorella sedute sul sedile posteriore dell’auto. Non esiste, quel pericolo. La peculiarità dei sogni è proprio questa: non si fanno influenzare dalla realtà. E se poi si sogna di qualcosa che è già magica di per sé, allora non c’è limite, neppure il cielo.