venerdì 23 febbraio 2018

OMAR e il Popolo Nobile

Bene, che cosa ci serve per raccontare una favola?
Per prima cosa abbiamo bisogno di sapere dove siamo . Ci serve una bussola; la bussola indica il nord, sapendo dov’è il nord sappiamo dove sono gli altri punti: sud, est, ovest. Se la usiamo sappiamo dove siamo, se la teniamo in tasca possiamo andare a Dappertutto. Dappertutto non vuol dire in qualsiasi posto. Dappertutto è un posto dove avvengono cose magiche. Non serve la bussola, per andare a Dappertutto. Poi ci serve qualcosa per sapere in che epoca viviamo; abbiamo un calendario. Il calendario serve a misurare i giorni, i mesi, gli anni, ci dice in che giorno, mese e anno siamo, e che giorno della settimana è: lunedì, martedì, mercoledì... ma non tutti funzionano solo al presente. I calendari normali forse, ma i calendari delle favole non sono così. I calendari delle favole possono portarci indietro nel tempo. Oppure, se li teniamo chiusi, ci possono portare in un luogo senza tempo, dove esistono le fate, i folletti, le creature magiche. Voi dove volete andare, indietro nel tempo, oppure in un luogo senza tempo, con le fate, i folletti ma attenzione, anche con le streghe cattive? Ci potrebbero essere anche le streghe cattive e i draghi. Non vincono mai, le streghe cattive, ma ci provano lo stesso a fare del male alle principesse. I draghi muoiono sempre alla fine, ma prima si mangiano un bel po’ di cavalieri, e se gli capita anche qualche bambino, ma di quelli della favola, non certo voi.... a meno che non vogliate entrare anche voi nella favola. No, meglio di no....
Torniamo indietro nel tempo?
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Omar e il popolo nobile
Tanto tanto tempo fa la terra era un unico reame in cui i sudditi erano tutti nobili e ricchi: re, regine,  principi e principesse, duchi e baroni.  Era governata da un giovane povero, tanto povero che la sua casa era fatta di canne e fango. Si chiamava Omar.
Il Creatore aveva disposto, dopo avere creato la terra e gli uomini, che fossero tutti ricchi e non avessero bisogno di niente; solo uno, con la sua sposa, avrebbe dovuto soffrire per il bene degli altri. Per governarli doveva essere diverso da loro, quindi povero, ma in compenso gli aveva concesso la felicità del focolare domestico.
Così Omar governava felicemente insieme alla sua sposa, Shamira, anche lei povera; ogni giorno andava a lavorare nei campi dei suoi sudditi e guadagnava quel poco che gli serviva per vivere felice insieme alla sua sposa. I suoi sudditi avevano tutto quello che serviva loro, e anche di più. Cavalli, soldati, servitori (ma anche i servitori e i soldati erano nobili e ricchi, solo un po’ meno dei loro padroni), cibo in abbondanza; non dovevano lavorare, non avevano niente di importante da fare.
Per questo, non avendo niente da fare, impegnavano il tempo per litigare tra di loro. Ogni scusa era buona, per litigare. “Il mio cavallo è migliore del tuo!” – “Mia moglie ha un vestito più bello di quello di tua moglie!” – “Io ho più soldi di te!”... E litigavano di brutto, al punto che ogni giorno Omar, che li governava ma non era il Re perché loro erano tutti nobili e lui no, era costretto ad intervenire per farli smettere.
Ma Omar non aveva soldati, perché era povero, i soldati li avevano i suoi sudditi. Lui governava con la forza più potente del mondo; una forza che se usata bene non ha rivali: la ragione. Omar ragionava, chiamava i suoi sudditi presso la sua casa e spiegava loro perché non dovevano litigare. Ragionando stabiliva chi aveva ragione e risolveva sempre i litigi; ma non dava mai tutta la ragione a uno solo perché sapeva che la ragione, quando due litigano, non è mai tutta da una parte mentre spesso può accadere che entrambi i litiganti abbiano torto. I sudditi ricchi non potevano opporsi, perché loro non ragionavano.
Qualche volta provavano a ribellarsi, e a mandare i loro soldati contro Omar, ma lui appena li vedeva parlava loro e, sempre ragionando, li rimandava indietro senza che fosse stata lanciata una freccia. 
In verità un aiuto lo aveva: su una montagna vicino alla casa di Omar abitava un potentissimo Mago,  Jamar. Jamar era un Mago buono, ogni tanto interveniva per aiutare Omar a risolvere i problemi.
E così fu per tanto tempo, Omar e Shamira vissero insieme poveri e felici. 
Un solo cruccio, ebbero: non poterono avere figli. Quando Omar si fece troppo vecchio e stanco si recò dal Mago Jamar, chiedendogli consiglio: 
Tra poco io non ci sarò più, non ho figli, chi governerà la terra dopo di me?” 
Era un problema serio. Jamar si recò di persona a parlare con i sudditi di Omar, chiedendo che concedessero un bambino ed una bambina perché potessero essere destinati a divenire governanti della terra al posto di Omar e Shamira.
Non ci fu niente da fare: nessuno dei sudditi fu disposto a dare un figlio o una figlia per governare, perché la condizione era che divenissero poveri. Jamar tornò sconsolato da Omar, preoccupato per il futuro della terra: 
Appena non ci sarai più tu, i tuoi sudditi saranno liberi di litigare ed in breve sulla terra non ci sarà più nessuno, si uccideranno tutti tra di loro.
Per l’ennesima volta Omar usò la sua potente arma, quella che chi è accecato dall’avidità non può avere: la ragione. 
Bene, visto che la terra deve essere governata a qualunque costo, e che nessuno lo vuole fare se deve essere povero, allora farai in modo che chi governa diventi ricco.” 
Non può essere! Tra chi governa e i suoi sudditi ci deve essere differenza, non possono essere tutti uguali.
 “Infatti” 
disse Omar 
Farai in modo che chi governa sia ricco più del più ricco dei sudditi di adesso. E tutti gli altri, li renderai poveri, così la differenza sarà mantenuta, anche se all’inverso. Non ne saranno contenti, ma è per il loro bene.
E così, dopo qualche tempo, alla morte di Omar e Shamira, che morirono felici insieme dopo una intera vita trascorsa in armonia, Jamar fece un potente incantesimo: di colpo tutte le ricchezze del popolo divennero di proprietà di uno solo e della sua famiglia, e tutto il popolo divenne povero. Il nuovo governante mantenne il titolo che aveva già di Re, solo che era l’unico Re rimasto, visto che gli altri erano diventati poveri. Jamar ebbe un ultimo gesto di pietà verso il genere umano, prima di ritirarsi per sempre sulla sua montagna, nauseato: cancellò dalla mente del popolo il ricordo del passato, pensando così di non farlo soffrire.
Ma le cose non andarono come pensava: il Re rimase quello che era, avido e ottuso, e i sudditi, che si ritrovarono poveri e non vi erano abituati, iniziarono a litigare tra di loro e con il Re, il quale però non aveva l’arma della ragione, né l’aiuto di Jamar.

E lo fanno ancora adesso.  

© 2014 Pasqualino Placanica (Tutti i diritti riservati)

domenica 18 febbraio 2018

Mimmo Musitano.



Che il ragazzo fosse promettente, il maresciallo Tondo lo sapeva; anche per questo aveva forzato la mano per farlo assegnare direttamente alla sua squadra. Ma che potesse manifestare fin da subito le caratteristiche dell’investigatore nato, non se lo aspettava. L’occasione giunse presto. Qualche mese dopo l’arrivo di Mimmo a Reggio, la squadra del maresciallo fu chiamata ad intervenire sul luogo di un omicidio. Durante la notte, in località Campisi sulle colline a nord della città un uomo venne ucciso in un agguato. Il brigadiere Versace, Mimmo ed un appuntato che erano di turno a quell’ora, si misero in auto per  recarsi subito sul posto.
Durante il viaggio l’appuntato relazionò sull’accaduto.
- Circa un’ora fa a Campisi c’è stato un agguato. Un morto. Sembra che non ci sia stato scontro, lo hanno sorpreso mentre scendeva dall’auto. Da quello che risulta dai documenti si tratta di uno del posto, Antonio Ranieri, cinquantacinque anni, che abitava nella strada in cui è stato ucciso. 
-Il nome non mi dice niente. Si tratta di un pregiudicato? 
 Chiese Versace.
-I colleghi che sono intervenuti per primi non lo conoscono. Al momento c’è una nostra pattuglia che sta presenziando, il giudice istruttore “sembra” che si stia recando sul posto. Da quello che hanno riferito via radio si tratta di una famiglia molto numerosa e conosciuta in paese, qualcuno dei componenti ha precedenti penali ma non la vittima a quanto sembra. E abitano quasi tutti in quella traversa, che porta appunto il nome della famiglia. Traversa Ranieri.
-Speriamo che non si tratti dell’inizio di qualche faida, allora.

Mimmo ascoltava senza dire una parola tutto quello che dicevano i due colleghi, e contemporaneamente prestava attenzione ai luoghi che stavano attraversando. Percorsa per qualche chilometro la strada nazionale verso nord, avevano imboccato una strada laterale, in salita in direzione monti. Dopo una ventina di minuti la strada si restrinse al punto tale da non permettere il transito di più di un veicolo per volta. Dovettero affrontare diverse curve a gomito, di cui una era talmente stretta che, per superarla, il brigadiere dovette compiere una manovra a marcia indietro e poi ripartire. Ad un certo punto la strada si allargò leggermente e iniziò a costeggiare sulla destra un torrente. Erano giunti nel centro abitato di Campisi.
- Quattro case e un forno. 
Disse Versace.
In effetti l’abitato si sviluppava sulla sinistra della strada, in poche traverse che finivano cieche contro il fianco della collina. Dall’altro lato della strada un muro a strapiombo sul torrente che scorreva una decina di metri più sotto. Nel punto più largo, una panchina sotto un ulivo ultracentenario e una fontana con acqua corrente cercavano di dare al posto la dignità di piazza del paese. Ma non era una piazza e quello non era un paese. Era un agglomerato di case, in buona parte risalenti a poco prima la seconda guerra mondiale, sviluppatosi intorno ad una istallazione militare. Si poteva vedere, sulla cima della collina, un centinaio di metri sopra le case, una grossa torretta dismessa. Dietro la torretta c’era il fabbricato di un’intera postazione antiaerea, famosa  a Reggio per l’attività svolta durante i bombardamenti nell’ultima guerra. La “Sorbara”, era chiamata quella batteria, dalla località in cui era collocata che prendeva a sua volta nome dalle numerose piante di sorbo che crescevano in zona. Da quella postazione erano stati abbattuti diversi velivoli, americani e inglesi. Proseguendo oltre, la strada si restringeva nuovamente, e spariva dietro una curva. La traversa Ranieri era la più grande. Terminava cieca, con un grande muro in pietra che faceva da contenimento alla base della collina. Era particolarmente curata, sui cigli della strada asfaltata non c’era erba né cartacce o rifiuti. In fondo, vicino al muro in pietra, coperto da un lenzuolo, il corpo della vittima. I presenti affermavano di avere udito due colpi di fucile da caccia. Almeno uno aveva colpito a morte l’uomo mentre scendeva dalla macchina dopo avere posteggiato. L’auto era posizionata parallela al marciapiede, il corpo era a terra vicino alla portiera lato guida. Una delle scariche aveva perforato la carrozzeria dell’automobile, i buchi dei pallettoni erano visibili a distanza nonostante stesse ancora albeggiando. A lato, seduta sul gradino del portone di una casa, una donna piangeva disperata, accanto a lei altre persone, uomini e donne. Mentre il brigadiere parlava con i colleghi che si trovavano già sul posto, Mimmo si guardò intorno. C’erano solo le prime tre lampade dell’illuminazione stradale efficienti all’entrata della strada. Le altre quattro, in fondo, avevano tutte le lampadine rotte. Cominciò a percorrere la traversa, controllando i nomi dei residenti sulle porte. Nella maggior parte dei casi il cognome era Ranieri.
Chiese ad uno dei colleghi notizie sulla strada principale, se proseguisse verso qualche altro centro abitato. La risposta fu negativa. Dopo la curva, in poche decine di metri moriva contro il fianco della collina. Una volta c’era un sentiero che portava sulla cima, ma era franato da tempo. In pratica, percorrendo quella strada si poteva andare solo a Campisi. E dalla stessa strada si doveva tornare indietro per andare via.
 Nel frattempo giunse un’auto di servizio. Ne scesero il maresciallo Tondo e altri due uomini, di cui uno con una borsa in pelle e aspetto da intellettuale. Tondo dapprima si avvicinò a Versace, che lo informò sommariamente dell’accaduto poi, notando che Mimmo era tutto preso dalle sue riflessioni, lo chiamò.
-Che c’è, dimmi cosa stai pensando.
-Hai notato le lampadine in strada? Le ultime sono state rotte a sassate.
-Beh, non sarebbe la prima volta che qualche teppista con la fionda si diverte a prendere di mira i lampioni.- Disse Tondo. Ma senza convinzione, aveva capito che Mimmo aveva già una sua idea. Versace si avvicinò ai due incuriosito.
-Certo, non sarebbe la prima volta, ma qui è avvenuto un omicidio. E hai visto com’è tenuta in ordine la strada, non c’è una carta per terra.  Se ho capito bene la traversa è abitata quasi interamente da famiglie che sono in stretto legame di parentela tra di loro e considerano la strada come la corte di servizio delle loro abitazioni. Perciò nessuno dei giovani del posto si sognerebbe mai di danneggiare casa sua per puro divertimento, né si può pensare ad una spedizione di vandali forestieri in un posto così isolato. Secondo me sono state rotte per agevolare l’agguato.
Il maresciallo lo guardava compiaciuto.
-Potrebbe essere. Ma saperlo ci serve a poco… 
Disse Versace.
-Aspetta- lo interruppe Mimmo ormai preso dalla foga del ragionamento.- Hai visto com’è difficile arrivare qui? Sia per venire che per andare via occorre per forza percorrere per almeno due chilometri la stessa strada. Che è talmente stretta che basterebbe anche una Ape a tre ruote ferma, per impedire il passaggio. Ora, mi sembra difficile che qualcuno venga  a piedi in un posto del genere a commettere un omicidio, in fondo ad una strada chiusa, abitata solo da parenti della vittima che potrebbero intervenire anche rispondendo al fuoco. Ma se fossero venuti con qualche mezzo di trasporto, come avrebbero potuto essere sicuri di trovare l’unica strada libera al momento della fuga? 
Si bloccò di colpo, sentendosi osservato.
-Continui. 
Gli disse l’uomo con la borsa in pelle  che, dietro di lui, lo ascoltava interessato da un po’.
-Il dottore Labate è il magistrato di turno. 
Disse Tondo, divertito. Mimmo non fece una piega, ormai era in piena “trance” investigativa.
- Bene, secondo me chi ha sparato è ancora qui, nascosto in una di queste case, che aspetta che si calmino le acque.  
Indicò le abitazioni vicine, davanti alle lampade rotte.
-Perché proprio in una di queste? 
Chiese Tondo, che aveva già intuito la risposta ma era affascinato dal ragionamento.
-Perché una volta sparato, avrebbe avuto troppo poco tempo per allontanarsi superando le tre lampade funzionanti senza correre il rischio di essere visto e magari riconosciuto. Se fosse dovuto andare oltre avrebbe rotto anche quelle. Due soli colpi di fucile, e dapprima, per almeno un minuto nessuno sarebbe uscito a vedere. Giusto il tempo per rientrare nel buio da dove era uscito.
-Ma trovare rifugio presso dei vicini di casa mi sembra complicato. Se qua sono tutti parenti… Obiettò Versace
- Non credo che si tratti di un omicidio di mafia. Se guardi bene, l’arma che ha sparato è un normale fucile da caccia, non a canne mozze. La rosata dei pallettoni sulla portiera dell’auto è troppo chiusa per essere stata sparata da una lupara. È stata sparata dall’altro lato della strada, che è larga, direi, al massimo dieci metri. Quindi tra tiratore e bersaglio, tutto compreso, ci saranno stati più o meno sei metri. Sparata da quella distanza, una rosata di lupara sarebbe molto più ampia.
-Il ragionamento del suo collega fila perfettamente. 
Disse il dottore Labate rivolto al maresciallo Tondo. 
-Mi sembra plausibile; certo non è detto che sia andata così, ma ci sono buone probabilità che abbia colto nel segno. Adesso le dico cosa faremo. Intanto faccia venire altri uomini per chiudere la traversa ed essere sicuri che nessuno entri o esca dalle case senza essere visto. Attendiamo la scientifica, che dovrebbe giungere a breve, per farci confermare il tipo di arma usata. Se l’impressione del nostro amico sarà confermata, autorizzerò immediatamente la perquisizione di tutte le abitazioni della traversa. Badate bene che se ci sarà la perquisizione dovrà essere quasi contemporanea in tutte le abitazioni. Se è vero che qua sono tutti parenti potrebbero essere complici, e si potrebbero passare l’arma da qualche finestra sul retro o per qualche altra via. Nel frattempo cerchiamo di non fare capire ai presenti le nostre intenzioni. Sospendete la raccolta delle deposizioni, ammesso che ce ne siano. 
Il maresciallo disse a Versace di occuparsi dei rinforzi. Poi rivolgendosi all’appuntato gli ordinò di recarsi presso il commissariato di zona, e di chiedere l’elenco delle denunce di armi in carico ai residenti del posto. Non sarebbe stato un elenco esaustivo, ma comunque utile. Sempre che si trattasse di un’arma registrata.
La scientifica confermò subito che non si trattava di un’arma a canne mozze, ma di un fucile da caccia a due canne presumibilmente calibro 16. Una doppietta, forse, o un sovrapposto.
Mimmo ricordò la doppietta a cani esterni che aveva suo nonno paterno. Cacciatore indomabile, ogni occasione era buona per imbracciare il fucile e qualche volta, da bambino, lo aveva portato con sé, in estate. Non gli piaceva la caccia come non gli piaceva il mercato del bestiame. Ma sparare sì, quello gli piaceva allora come adesso. Gli piaceva l’odore del fucile lubrificato, della polvere da sparo, il leggero odore di bruciato che gli restava sulle mani dopo aver sparato con la doppietta del nonno. Non se le voleva lavare dopo, quelle mani, tanto gli piaceva sentire l’odore della polvere da sparo esplosa. Sparava, sì, ma sempre contro bottiglie vuote, oppure contro qualche pitta di ficodindia. Ai bersagli inermi preferiva quelli inerti, senza vita. Chissà che fine aveva fatto quella doppietta, dopo la morte del nonno. Tornò alla realtà, e poco più in là vide il nonno seduto su un gradino, con la stessa birritta grigia in testa, lo sguardo rivolto verso terra, le mani grosse e  piene di calli appoggiate sulle ginocchia. Per un attimo. Poi realizzò che non era possibile. Ma la figura che vedeva era reale. Si avvicinò, e il vecchio alzò la testa. Senza dire una parola gli fece segno di sedersi a fianco a lui. Sotto quella birritta grigia, le sopracciglia nere e due occhi piccoli, contornati da profonde rughe scavate dal tempo. Mimmo si sedette come se non avesse niente da fare, se passasse da lì per caso.
- Voi siete sbirro. 
Disse il vecchio, senza guardarlo in faccia.
- Sono della Polizia. Anche se sono in borghese.
Rispose Mimmo, che non la prese come un’offesa. Come avrebbe potuto offendersi con il nonno?
-Voi siete sbirro di quelli veri.
 Precisò il nonno. 
Sapete qual è la peggiore disgrazia che possa capitare a un padre? 
Continuò.
-Ma perché dite che sono uno sbirro vero? 
Mimmo ignorò la domanda.
-Nessun padre dovrebbe seppellire il proprio figlio.
 Sembrava un dialogo tra sordi. Mimmo intuì che doveva lasciarlo parlare, a prescindere da quello che ne avrebbe ricavato.
Il vecchio prese dalla tasca della giacca un pacchetto di Nazionali senza filtro, vi batté di sotto con un dito, dal lato chiuso per fare uscire una sigaretta e lo porse a Mimmo che rifiutò con un gesto di diniego.  La prese lui e se l’accese affondando il viso nell’incavo delle due mani, quindi alzò il capo e volse lo sguardo verso di lui. L’odore del tabacco bruciato andò ad aggiungersi ai tanti aromi che il nonno emanava, riportando nuovamente indietro nel tempo il giovane.  Incastonati in quel volto arso dal tempo, gli occhi neri del vecchio sembravano come quelle finestre con i vetri a specchio in cui da fuori ci si può specchiare mentre chi sta dietro vede tutto senza essere visto.
-Vi ho ascoltato, prima. Siete giovane, ma quelli più vecchi di voi vi ascoltavano e vi hanno dato ragione. Voi siete sbirro vero.
-E voi, invece, che ne dite? 
Chiese Mimmo. Sperava di ottenere qualche indicazione utile sull’accaduto.
-Io ho seppellito mio figlio.
Disse con gli occhi lucidi. Dietro il vetro delle finestre a specchio si accese una luce per un attimo lasciando intravedere qualcosa. Ma fu solo un attimo, il vecchio si asciugò subito gli occhi con un fazzoletto e i vetri tornarono ad essere impenetrabili.
-Se fosse vivo, adesso mio figlio avrebbe quarantanove anni . E’ nato lo stesso giorno in cui mi sono sposato, l’anno dopo.
Quindi era il compleanno del figlio e l’anniversario del suo matrimonio. Il cinquantesimo, anniversario. Ma la nonna dov’era? Non osava chiedere.
-Voi come vi chiamate, giovanotto?
-Mimmo, Mimmo Musitano.
-Io sono Filippo Ranieri, e questa è la mia casa.
Si alzò in piedi e indicando la porta dietro di lui,invitò Mimmo ad entrare. Entrarono direttamente in cucina. Un tavolo di legno, due sedie con la seduta in corda, un lavandino in pietra grezza con un solo rubinetto. In un angolo un cucinino a due fornelli sopra un tavolino, a fianco la bombola del gas. Uno stipo a quattro ante nell’angolo opposto. Non c’era niente appeso al muro, neanche un calendario. Troppo essenziale, non c’era la mano di una donna. Filippo Ranieri aprì uno sportello dello stipo e tirò fuori un recipiente di metallo e un macinino. Aprì il recipiente, prese un pugno di chicchi di caffè e li mise dentro il macinino. Iniziò a girare la manovella, e qualche secondo dopo le narici di Mimmo riconobbero un altro odore dimenticato.
-Non avete voluto la sigaretta, ma il caffè lo dovete accettare!-
Annuì sorridendo, non poteva rifiutare e comunque ne aveva bisogno, non dormiva da più di 24 ore.
Macinato il caffè, il vecchio lo versò nel filtro della caffettiera, poi riempì la caldaia con l’acqua del rubinetto. Preparò la caffettiera, la mise sul fornello acceso, e si sedette di fronte a Mimmo. Si tolse la birritta dalla testa, poggiandola sul tavolo capovolta e riprese a guardare in viso il giovane da dietro i suoi occhi impenetrabili. Mimmo fissò la sua fronte, adesso scoperta: una serie di profonde rughe, alcune verticali, altre orizzontali la solcavano simili alle gole d’Aspromonte che l’acqua aveva scavato nella roccia scorrendovi per millenni. E forse era proprio così, forse erano state scavate dal sudore che era sceso copioso per tutta la vita da quella fronte.
L’odore del caffè che usciva dal beccuccio della caffettiera fece girare il vecchio. Spense il fuoco, tolse la caffettiera dal fornello e la poggiò sul tavolo, sopra un sottopentola in legno. Aprì un altro sportello dello stipo e prese due  tazzine con i piattini in porcellana bianca e oro e una zuccheriera con il bordo ed il manico dorati; da un cassetto prese due cucchiaini d’argento. Poggiò tutto sul tavolo in perfetto ordine e versò il caffè fumante.
Sì, lui era lo sbirro, quello che doveva fare le domande, ma come si fa a fare domande ad un vecchio di età indefinita che ti invita in casa e ti offre il caffè di sua iniziativa? Decise di aspettare. Mentre beveva il caffè, Mimmo notò che lo sportello da cui il vecchio aveva preso le tazzine era ancora aperto. Dietro il servizio da caffè c’erano due portafotografie. Appena ebbe terminato, il vecchio poggiò la tazzina sul tavolo e si alzò bruscamente.
- Aspettate qua! 
Disse, e sparì dietro la porta che dava sulla stanza accanto. Mimmo non seppe resistere. Si alzò e si avvicinò allo stipo, per guardare da vicino le due fotografie. In realtà erano tre. In una cornice c’era il ritratto di una bella donna, giovane, capelli neri raccolti a tuppo, sorridente. Nell’altra c’erano due foto affiancate; in una, un giovane in divisa con le mostrine dell’artiglieria, a mezzobusto. Mimmo notò che il militare aveva una forte somiglianza con il vecchio. L’altra foto era una bellissima immagine di serenità familiare: padre, madre ed un bambino sorridenti, seduti in terra sull’erba. La donna era sicuramente quella della fotografia, l’uomo sembrava essere Filippo Ranieri da giovane.
-Siamo io, mia moglie e mio figlio Peppe.-
Il ritorno del vecchio lo distolse dalle sue riflessioni. Tornò a sedersi indietreggiando senza voltarsi, con il capo chino vergognandosi per avere violato l’intimità del suo ospite.
- Mio figlio è morto a ventitre anni. Mia moglie mi ha lasciato solo un anno fa. Sapete, era un bel ragazzo, mio figlio Peppe. 
Bussarono alla porta. Il vecchio non si mosse. Mimmo si alzò e aprì. Era Versace, i suoi colleghi avevano iniziato le perquisizioni. Il brigadiere capì che poteva aspettare, visto che comunque Mimmo era dentro. Il giovane richiuse la porta e tornò a sedersi.
-Nel quarantatre, quando iniziarono i bombardamenti, mio figlio era qui, in licenza. Questa casa fu mitragliata più di una volta, perché dietro, sulla collina c’era la batteria antiaerea della Sorbara che sparava contro gli aerei alleati. Quando finì la licenza, Peppe non volle tornare al Corpo. Non aveva paura della guerra, voleva stare con me e sua madre, non ci voleva lasciare soli. E si fece disertore. Non ci furono problemi, all’inizio, perché i soldati della Sorbara qui non venivano mai. Eravamo tutti parenti, nessuno parlava, tutti aiutavano. Poi arrivarono i tedeschi, e una pattuglia si accampò qua da noi.-
Filippo Ranieri era rilassato, adesso. Le rughe della fronte si erano distese, quasi scomparse.
- Peppe se ne dovette andare. Salì in Aspromonte, ma ogni tanto, di notte, scendeva in paese. Tutto continuò così, fino a quando non arrivò il “capitano”.-
Pronunciò la parola capitano con disprezzo. 
Il capitano, l’eroe di guerra, l’uomo d’onore. Era venuto in licenza, il figlio di mio cugino Ciccio. Quando seppe che mio figlio era disertore venne da me e mi disse che Peppe si doveva presentare, che era ancora in tempo e che si sarebbe interessato lui per aggiustare la cosa. Lo dissi a mio figlio, ma non si fidò e rimase latitante. Ma l’eroe non poteva lasciar perdere e si mise a spiare. In seguito disse che lo faceva per potergli parlare direttamente, per convincerlo, ma una notte, quando Peppe arrivò lo aspettavano i tedeschi, insieme al capitano. Lo catturarono e la mattina dopo lo fucilarono senza processo. Proprio là fuori, contro il muro dove finisce la strada.
Mimmo chinò il capo. Cercò d’immaginare come si poteva sentire un padre che ogni giorno, per anni ed anni, uscendo di casa vedeva per prima cosa il luogo dov’era stato giustiziato suo figlio.    
Quando alzò il capo vide nuovamente suo nonno, con in mano una doppietta a cani esterni con la culatta aperta. Sobbalzò, dapprima, poi capì. Il vecchio gliela porse tenendola dalle canne; l’odore della polvere da sparo esplosa invase le sue narici.
-Perché? Perchè adesso, dopo tanto tempo?
Chiese Mimmo.
-Quando morì mia moglie, dapprima pensai che ormai non avevo più motivo di vivere. Ma quel muro ogni giorno mi parlava e mi metteva davanti a una scelta. Dovevo scegliere: o lui, o io. Ho scelto lui. Oggi era il giorno giusto, e adesso quel muro non parla più.
Disse Filippo Ranieri, poi tacque.
Le rughe sulla fronte del vecchio erano ancora più profonde di prima, e gli occhi, che mentre raccontava si erano schiariti, adesso erano ancora più impenetrabili, e contemporaneamente penetranti.
Rimasero così, in silenzio, Mimmo ad esplorare il viso del vecchio, il vecchio ad esplorare l’anima di Mimmo.
Poi il vecchio parlò:

-Sapete, siete un bravo giovane e somigliate assai a mio figlio. Ho piacere che mi arrestiate voi.



© 2018 Pasqualino Placanica (Tutti i diritti riservati)

domenica 4 febbraio 2018

Noncarlo.

Mi presento: mi chiamo Carlo Basile, o meglio così ho creduto di chiamarmi fino all’età di sei anni. Sono figlio di Rocco, boscaiolo, e Concetta Romeo.
Nacqui a Ruvulo, frazione di Massarìa, un paesino sul versante tirrenico della Calabria alle pendici dell’Aspromonte, all’alba del 5 novembre 1894; mia madre mi partorì nella camera da letto dei miei genitori con l’assistenza di nonna Adelina, sua genitrice, e della levatrice del paese.  
Mio padre uscì sul balcone di casa e sparò in aria alcuni colpi di fucile per festeggiare l’evento. Da altri balconi e dalle case sparse intorno al paese altri colpi risposero in segno di partecipazione e si dice che anche due Regi Carabinieri di passaggio in paese abbiano esploso alcuni colpi di moschetto.
Il primo figlio, maschio e in salute. La massima soddisfazione che un padre possa pretendere.
Nacqui quindi bene accetto e onorato dalla mia famiglia e dai miei compaesani. La mia famiglia era conosciuta e molto benvoluta.
Qualche ora dopo la mia nascita mio nonno Carlo, padre di mio padre, venne a vedermi ed a reclamare il diritto al nome che per tradizione il primogenito acquisiva dal nonno paterno. Da ciò che so, sembra che mio padre non abbia tenuto buoni rapporti con il suo genitore per gran parte della sua vita, forse a ragion veduta o forse per carattere; fatto sta che il giorno stesso tra i due si scatenò un alterco di tale violenza che la nonna Adele intimò loro di andare fuori di casa a… rivendicare le rispettive ragioni (“a rompersi le corna” disse in realtà). Che non fosse certo il momento adatto per riesumare antichi rancori non c’era dubbio. Che nonno Carlo non fosse tipo da particolari delicatezze era altrettanto sicuro. Sospetto che mio nonno abbia minacciato mio padre e mio padre abbia reagito usando me come oggetto del ricatto. Certo è che il litigio tra i due galantuomini non finì con una pace. Il nonno se ne andò inveendo e, a quanto mi raccontò mia madre, non venne più a vedermi per diverso tempo, mio padre giurò che non mi avrebbe mai dato il suo nome. Nei giorni successivi mio padre fu molto impegnato tra il lavoro e i doveri di ospitalità verso chi veniva in visita per vedermi e congratularsi. I paesani, al corrente del grave dissidio intercorso, si guardarono bene dal chiedere il nome del nascituro, e per un po’ di tempo io fui “u figghiolu” per tutti. Più di una settimana dopo, qualcuno gli fece notare che sarebbe dovuto andare al paese a registrare la mia nascita all’ufficio dell’anagrafe. Si palesò dirompente il problema del mio nome. Mia madre e mia nonna Adelina cercarono di mettere pace, una intercedendo con mio padre e l’altra con mio nonno, ma né l’uno né l’altro vollero piegarsi o scendere a compromessi. Mio padre decise che mi sarei chiamato come il nonno materno suo suocero, Filippo. Doppio sgarbo a mio nonno Carlo, che, naturalmente, con il caratteraccio che aveva non cuciva neanche con il consuocero, che comunque era morto da qualche anno.  Partì quindi, Rocco Basile, per Massarìa dove aveva sede l’anagrafe comunale, insieme a due testimoni: compare Ciccio Malara ‘u furnaru, e Matteo Nucara ‘u pecuraru. Nessuno dei tre sapeva scrivere, né leggere. Era il 16 novembre 1894, nel primo pomeriggio. Quando si presentarono davanti all’impiegato comunale, Rocco aveva le idee chiare. Un po’ meno l’impiegato, seccato per essere stato svegliato e ancora stordito, oltre che dal sonno, dai fumi del vino che in mattinata gli aveva donato un paesano in segno di gratitudine per un favore ricevuto. Dopo aver stilato il cappelletto di premessa dell’atto, con le generalità dei genitori e quelle dei testimoni, guardò in faccia mio padre e gli fece la fatidica domanda:
-quale nome mettete al bambino?
Rocco non seppe resistere alla tentazione di rimarcare la sua risolutezza, si voltò verso i suoi due amici e tagliando l’aria con la mano aperta esclamò:
-non Carlo!
L’impiegato intinse il pennino nel calamaio e scrisse qualcosa sull’atto. Mio padre si voltò verso di lui per dichiarare il mio nome: Filippo. Un suono sordo, dapprima lontano poi sempre più forte e vicino, precedette la sua voce, poi la terra iniziò a tremare. L’impiegato comunale fu sbalzato dalla sedia, si rialzò e senza indugio corse fuori dalla stanza, seguito da mio padre e dai due testimoni. Sembrò passare un’eternità, gli uomini videro case accartocciarsi su se stesse, intere famiglie fuggirono verso il vicino torrente, un fiume di fango invase le strade, proveniente da chissà dove. Mio padre riuscì a tornare a Ruvolo, e trovò la casa ancora in piedi ma vuota. Mia madre, con me in braccio, la nonna e altri paesani, si era messa in salvo salendo su una rupe rocciosa alle spalle dell’abitato, un enorme blocco di granito che, si sapeva, aveva già resistito con successo ad altri spaventosi cataclismi nel corso dei secoli. I mesi successivi furono tristi. Tutti gli uomini furono impegnati nello sgombero delle macerie e molte famiglie piansero per i loro morti. La mia famiglia ne uscì  quasi indenne, tutti i miei parenti si salvarono e le ristrettezze e le difficoltà fecero riavvicinare mio padre e mio nonno. Ma del mio nome non se ne parlò più, per anni. Mi chiamavano Carlo e quello fu il mio nome fino al giorno in cui si rese necessario ottenere un certificato di nascita per l’iscrizione alla scuola elementare. Quando mio padre si presentò all’anagrafe per richiedere il certificato l’ufficiale dell’anagrafe aprì il registro dell’anno 1894 miracolosamente intatto, e rintracciò la pagina. 
Avrete capito che la gente semplice come noi non dava una grande importanza alle carte e ai documenti. Per mio padre il tempo impegnato nelle pratiche di cui non capiva niente era perso. Nulla di strano quindi che non si sia reso conto che in realtà l’atto di nascita non fosse stato completato a causa del terremoto. Nessuno aveva firmato niente.  L’impiegato gli spiegò la situazione e mio padre ne prese atto seccato.
- E quindi adesso come si fa? Mio figlio non potrà andare a scuola?
L’uomo pensò che a volte per risolvere un grosso guaio può essere giustificata una piccola infrazione. Quel maledetto terremoto aveva già dato tanti dispiaceri.
- Conosco bene Ciccio Malara e Matteo Nucara, entrambi non sanno leggere e scrivere. Ma voi? – chiese.
-Neanche io, per tagliare legna non serve. So far di conto, però. Quello sì!
-Non ci serve. Invece vi sembrerà strano, ma che non sappiate scrivere in questo caso è utile. Mettete un segno di croce qui.
Mio padre firmò, poi l’impiegato appose una croce sotto il nome di Matteo Nucara e una sotto quello di Francesco Malara. L’atto era completo. Soddisfatto, l’uomo stilò il certificato e lo consegnò a mio padre che capì, ringraziò, e naturalmente senza leggerlo poiché non sapeva farlo, lo portò alla scuola elementare per iscrivermi al primo anno.
Così, con un reato commesso a fin di bene, la procedura di ufficializzazione della mia esistenza in vita fu completata sei anni dopo la mia nascita.  
Il primo giorno di scuola uscii di casa euforico. Fuori della piccola casa che fungeva da scuola elementare, all’inizio del paese, c’erano già altri bambini, alcuni più grandi di me. Ci conoscevamo tutti, ovviamente. Il maestro veniva dalla città, era un signore alto, ben vestito, un paio di grandi baffi neri, l’orologio nel panciotto e gli occhiali con le lenti rotonde. Si fermò sulla porta della scuola, e ci spiegò cosa ci stavamo apprestando a fare, cosa significasse quella fase della nostra vita e quanto fosse importante che tutti ci impegnassimo ad apprendere ed aiutarci tra di noi a tal fine.  Mi piacque. Poi prese un foglio di carta e leggendolo iniziò a chiamare il primo appello dell’anno. Naturalmente in ordine alfabetico. Con la A iniziale non c’era nessuno.
-Basile Noncarlo!
Ci guardò, perplesso. Poichè nessuno rispondeva, andò avanti. Via via che chiamava i nomi, i miei compagni entrarono in aula. Alla fine rimasi solo, a guardare in viso il maestro. Lui sulla soglia, ed io tre gradini più in basso.
-Come ti chiami?
Me lo chiese, ma credo sapesse già che quel Basile ero io.
-Carlo Basile, signor maestro.
-Infatti- disse- ho sbagliato a leggere. Come vedi anche i maestri non sono infallibili.
Con un sorriso che non scorderò mai, m’invitò ad entrare. Il primo giorno di scuola fu indimenticabile, un misto di emozioni difficilmente descrivibili. Tristezza, timore, voglia di scappare… poi curiosità, interesse, allegria.
Fu il mio maestro che in seguito ricostruì i fatti e mi raccontò ciò che era successo. Mi spiegò che  una volta adulto avrei potuto, se avessi voluto, fare modificare legalmente il mio nome, da Noncarlo a Carlo, ma io non ho mai voluto farlo. Ancora oggi capita che quando qualcuno sente per la prima volta il mio vero nome ci scherzi sopra oppure trattenga a stento l'ilarità. Ma poi, conoscendomi, il nome non conta più.
Ricordate ragazzi, il vostro nome è importante per voi, senza dubbio. Ma sarà importante nella vita nella misura in cui saprete onorarlo con le parole e nei fatti. Ognuno di voi, al termine del percorso d’istruzione seguirà una strada che lo porterà ad essere parte di qualcos’altro, ad influire sulla vita di altri. Sappiate essere buoni alunni per potere in futuro essere buoni maestri, di scuola o di vita, per chi sarà bambino dopo di voi. E adesso iniziamo…

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