martedì 25 settembre 2018

Italiani brava gente. Storia di orgoglio e pregiudizio.


-Buongiorno, vi pozzu fari ‘na domanda? 
-Certo, e s’a sacciu vi dugnu puru ‘a risposta! 
Ormai è una costante: un ferroviere in pausa che sosta per un’ora sul marciapiede della stazione riceve dalle cinque alle cinquanta richieste di informazioni. Il fatto è che di solito mi chiedono informazioni su biglietti ed abbonamenti ed io non sono in grado di rispondere, non è la mia materia. Io i treni li guido, di aspetti commerciali non ci capisco  quasi niente. Ma sarebbe inutile spiegarlo prima, meglio ascoltare la domanda ed eventualmente indirizzare l’interlocutore verso la persona giusta. Il signore che mi ha interpellato ha, credo, più o meno la mia età.
-Cu ‘stu bigliettu, ‘u pozzu pigghiari ddu trenu? 
Mi mostra un biglietto del Trasporto regionale, mentre mi indica un Intercity fermo al binario a fianco. Questa la so. 
-No, mi dispiace, supra a ddu trenu ci voli n’atru bigliettu. Ma state tranquillu, n’atra menz’ura rriva ‘u trenu giustu. 
-‘U sacciu, ma sapiti chi mi succediu? Pirdìa ’u portafogli cu centocinquanta euro, e restai senza sordi. Ia ‘nta Polizia mi fazzu ‘a denuncia, chi mi fici perdiri ‘nu saccu ‘i tempu. E avi tri uri chi sugnu ccà, ora mi suddìai, mi ‘ndi vogghiu turnari ‘a casa. Pensava chi facendu ‘a denuncia chi pirdìa i sordi mi potivanu fari ‘na carta mi ‘nchianu supra ‘o trenu senza bigliettu e mi pavu poi, quandu turnava ‘a  casa. Ma mi dissiru chi non si poti fari, chi senza bigliettu non si poti ‘nchianari e chi ‘nc’era ‘na multa salata ‘i pavari, si mi truvavunu. Sapiti, jeu non vogghiu passari pi chiddu chi cerca mi faci ‘u furbu, comu fannu sti niri e sti rumeni chi ‘nchianunu e si mmucciunu non mi pavunu ‘u bigliettu. Non tutti, p’amuri ‘i Ddiu, ma a maggior parti si. Si ‘ndi partunu ‘i casa i Cristu mi venunu ‘ccà mi fannu i furbi, mi cercunu ‘a limosina e mi rrobbunu. Jeu sugnu italianu, chiddi chi venunu ccà mi fannu i delinquenti mi si stannu ‘a sò casa. Prima mi rrivunu tutti sti stranieri ‘sti cosi non succerivunu. 
Lo guardo perplesso. Si vede che è una brava persona, non c’è cattiveria in quello che ha detto, ma solo tanto pregiudizio. E comunque è difficile negare che i comportamenti che ha descritto siano veri. Rinuncio ad avviare una discussione sulla materia, ho troppo poco tempo, devo riprendere a lavorare. Ma ha detto di non avere soldi, eppure ha un biglietto: cinque euro e cinquanta centesimi.
-Ma poi ‘u truvastuvu, ‘u portafogli? ‘U bigliettu comu ‘u pavastuvu? 
-Pi furtuna truvai fora ‘nu tassista chi sintìu e mi mprestau ‘i sordi. N’o canusciva mancu. Mi dessi cincu euro, e dumani ci nd’haiu a turnari deci. 
-Capiscìa bonu? Vi dessi cincu euro e dumani ndi voli deci? 
-Si, ma non c’è problema, dumani haiu a turnari, ndi vidimu fora e c’i portu. ‘U sacciu chi sunnu assai, ma aviva bisognu, non mi potiva mentiri mi fazzu discussioni. 
Avevo capito bene. Il cento per cento al giorno di interesse. Per il tassista “benefattore” il termine di usuraio sarebbe riduttivo. Non ho più tempo, devo scappare, ma una domanda al signore la voglio fare sperando che almeno lo faccia riflettere su pregiudizi e stereotipi.  
-Sentiti, ma ‘stu tassista è rumenu, niru… o italianu? 

© 2014 Pasqualino Placanica (Tutti i diritti riservati)

lunedì 10 settembre 2018

La casetta blu.





Non sogno più castelli rovinati, 
decrepite ville abbandonate,
dalle mura tutte crepate
dove ci passa il sole.
Non palazzi provinciali disabitati, 
dalle porte polverose,
dalle vetrate colorate, 
dalle finestre ferrate,
non più.
Era il 1975, frequentavo la terza media e, traendo spunto da questi versi tratti dalla poesia “Una casina di cristallo” di Aldo Palazzeschi, la professoressa di italiano ci assegnò la stesura di un componimento la cui traccia, dopo avere citato i versi, recitava più o meno così: conosci anche tu un palazzo provinciale disabitato? descrivilo e racconta le tue sensazioni in merito.
Ecco, io descrissi proprio quella meravigliosa casa che ogni sabato pomeriggio, ogni domenica mattina, ammiravo da anni per pochi attimi dal finestrino laterale posteriore della già allora vecchia 500 di mio zio, all’andata e al ritorno dalla consueta battuta di pesca del fine settimana. La descrissi, ricordo, esattamente come l’ho trovata oggi, ne sono certo. Perché, lo so che è incredibile, ma non è cambiata per niente. Anzi ricordo che allora aveva le imposte del balcone centrale leggermente aperte, mentre adesso sono chiuse. Solo qualche ruga, come sul viso di una bella donna sorridente che lentamente avanza nella vita, felice di esistere. Descrissi poi le mie sensazioni, quelle di un adolescente che fin da bambino aveva fantasticato su quella casa che seppur abbandonata ed apparentemente irraggiungibile, stretta tra una collina impervia e la statale 106, sembrava gridare al mondo la sua esistenza, la sua voglia di essere nuovamente. Io la vidi così, come un prigioniero isolato, condannata dall’incuria degli uomini a pagare qualche inconfessabile colpa per un tempo indefinito, ma che non si arrendeva e mai lo avrebbe fatto. E poi raccontai della famiglia che vi aveva abitato, di come viveva, del perché era andata via. Di come immaginavo io, che fosse avvenuto tutto ciò. È incredibile e meraviglioso come possa un’immagine (perché quello era allora, un’immagine) scatenare la fantasia di un bambino, e come quella fantasia rimanga viva per sempre, scolpita nella mente al punto tale che, anche quando quel bambino diventa uomo e l’immagine diventa realtà da toccare con mano, nulla cambi nella sua mente. Vedendo le foto della visita alla casetta blu, un’amica mi diceva che lei forse non riuscirebbe ad entrare, per paura di tradire tutti i sogni che aveva fatto da bambina insieme a sua sorella sedute sul sedile posteriore dell’auto. Non esiste, quel pericolo. La peculiarità dei sogni è proprio questa: non si fanno influenzare dalla realtà. E se poi si sogna di qualcosa che è già magica di per sé, allora non c’è limite, neppure il cielo.

mercoledì 29 agosto 2018

L’antica Terra


Questo racconto ha vinto il 2° premio al Concorso  "Inedito Rhegium Julii 2018"
Dalla motivazione della Giuria al riconoscimento: 
(il racconto) riprende e rianima antichi miti, con un'originalità sua propria. Le forze del bene e del male si scatenano, sconvolgono l'originario assetto dato dal Creatore ad un'Antica Terra, teatro di scontri umani e soprannaturali. 
È anche un capitolo del romanzo che sto terminando di scrivere, il prologo da cui scaturisce una storia ambientata interamente intorno a Reggio, sull'Aspromonte, che inizia in tempi antichissimi ma si svolge principalmente all'inizio del secolo scorso. 


L'Antica Terra
Si narra che tanto, tanto tempo fa, la Sicilia e la Calabria fossero unite da una lunga e altissima catena montuosa che si snodava da est a ovest. A quei tempi, quando ancora l’uomo non era apparso sulla Terra, il Creatore dell’Universo aveva affidato il dominio dell’Antica Terra a due sue creature predilette, la Fata delle Acque e lo Spirito dei Boschi. In quel luogo i due mondi, il mare e la terraferma, prosperavano. S’integravano e si aiutavano a vicenda. 
Lo Spirito dei Boschi permetteva alle acque di percorrere i suoi possedimenti per tornare al mare dopo le piogge, ed in cambio la Fata delle Acque  ne nutriva, con il prezioso liquido, gli esseri viventi. Dalle cime dei monti che ininterrottamente si succedevano da est a ovest, scendevano decine di corsi d’acqua limpida che prima di giungere al mare fecondavano la terra rendendola fertile. Le piante e gli animali della terra, dei fiumi e dei laghi, si saziavano delle inesauribili risorse che il Creatore aveva donato a quel luogo a Lui tanto caro. Meravigliose foreste sempreverdi si alternavano a floride vallate lussureggianti, e gli animali, unici abitanti della terra e dell’acqua, vivevano indisturbati in armonia. Ammirando soddisfatto la sua opera, il Creatore si rammaricò di non poterne godere personalmente, essendo Egli responsabile di una dimensione ben più grande, l’intero Universo. 
Decise allora di creare l’uomo, che sarebbe stato la sua rappresentazione materiale nel meraviglioso mondo che aveva costruito. Per questo lo generò, così si dice, a sua immagine e somiglianza e lo collocò, per le caratteristiche fisiche che aveva, sulla terraferma. Gli concesse, in aggiunta alle prerogative che aveva dato a tutti gli altri abitanti dell’Antica Terra, l’intelligenza e il libero arbitrio,la libertà di fare le proprie scelte. L’uomo, nelle intenzioni del Creatore, era destinato a primeggiare tra tutti gli esseri viventi, e a godere, in sintonia con tutte le altre sue creature, dei meravigliosi doni che quel luogo incantevole offriva. 
La Fata delle Acque e lo Spirito dei Boschi accettarono con disappunto la decisione del Creatore perché vedevano nella nuova creatura, dotata di prerogative quasi simili alle loro, un pericolo per la tranquillità dei loro regni e per la loro stessa esistenza.
L’uomo, una volta consolidata la sua presenza, non smentì quelle cupe previsioni. 
I primi uomini iniziarono usando con parsimonia le risorse che la natura offriva loro per vivere. Prendevano solo quello che serviva per il giorno stesso, sicuri di non avere bisogno di preoccuparsi per il futuro. Poi iniziarono le divisioni. Gli umani, sempre più numerosi, si separarono dividendosi in due tribù: gli Uomini dell’est e gli Uomini dell’ovest. Ogni tribù si appropriò di un pezzo di territorio e iniziò a sfruttarlo selvaggiamente. Non si accontentarono di avere il necessario, iniziarono ad accumulare risorse strappandole prematuramente alla natura. 
Lentamente, il volto della Terra cambiò. A est e ad ovest intere foreste furono distrutte, decine di specie animali furono annientate e scomparvero per sempre. La Montagna fu sventrata e violentata, i fiumi deviati e imbrigliati, la terra divenne sterile e non produsse più i frutti che prima dispensava a piene mani. Accecati dal bisogno e dalla cupidigia, gli uomini cominciarono a combattersi tra di loro cercando di appropriarsi delle risorse altrui. Fu un lunghissimo periodo di morte e distruzione. 
La Fata delle Acque e lo Spirito dei Boschi chiesero a gran voce al Creatore di far cessare il conflitto che stava annientando i loro regni. Ma per far questo il Creatore sarebbe dovuto intervenire sul libero arbitrio che Egli stesso aveva donato all’uomo. Non ci fu niente da fare, il libero arbitrio era irrevocabile, a meno di non portare l’uomo allo stesso stato delle altre creature animali. 
Allora le due divinità chiesero al Creatore cosa avesse in quel momento l’uomo in più degli animali, poiché si comportava peggio di loro: distruggeva la stessa natura che lo nutriva, uccideva i suoi simili per soddisfare la propria brama di ricchezza e potere. Il Creatore rispose che l’uomo aveva, a differenza degli animali, l’intelligenza che gli permetteva di poter valutare e quindi scegliere. E delle sue scelte sbagliate si sarebbe assunto la piena responsabilità, poiché non aveva giustificazioni. 
Chiesero allora di potere intervenire loro direttamente per frenare gli scempi e le atrocità a cui assistevano giornalmente garantendo che non avrebbero preso le parti di nessuno, poiché loro non concepivano divisioni se non quella che esiste tra l’Acqua e la Terra.  
Ma il Creatore glielo vietò. Per molto tempo le due divinità rispettarono il volere del Creatore e, pur con il cuore a pezzi, non interferirono assistendo sdegnate all’irrefrenabile decadenza dei loro regni. Fino a quando, un giorno, due enormi eserciti si schierarono, uno di fronte all’altro, per affrontarsi nella battaglia finale. Da est a ovest un gigantesco incendio scatenato dagli uomini stava distruggendo definitivamente il poco che restava dell’antico splendore di quella sfortunata Terra. Le creature dei fiumi e dei laghi galleggiavano inerti sul pelo delle acque rese bollenti dall’enorme calore che l’incendio generava, gli incolpevoli animali dei boschi fuggivano spaventati verso il mare che non poteva accoglierli. E gli uomini, che tra tutti erano i più cari al Creatore, stavano sterminandosi a vicenda dopo avere causato quello scempio immane. Tutto stava per finire.
Allora la collera delle due divinità fu incontenibile, superando anche il rispetto che esse avevano per  lo stesso Creatore. Lo Spirito dei Boschi scatenò un tremendo terremoto. Il terreno sprofondò per centinaia di metri sotto i due eserciti, inghiottendoli mortalmente in un’immensa voragine. La Fata delle acque comandò al mare di riempire la voragine, separando così per sempre i territori dell’est da quelli dell’ovest. Ogni cosa fu travolta dall’ira degli dei. Quando l’ira divina si placò, la grande catena montuosa coperta da boschi millenari che correva da est a ovest unendo quelle terre che un giorno si sarebbero chiamate Sicilia e Calabria, non esisteva più. Al suo posto due massicci spogli e rocciosi si fronteggiavano, divisi da una larga striscia di mare che li lambiva alla base.  
Col tempo, lentamente il mare si ritirò dai piedi delle due Montagne, permettendo alla pianura di riemergere. La natura riprese il sopravvento, le acque ripresero il loro corso e furono ripopolate dalla Fata. La vegetazione rifiorì e pian piano gli animali tornarono ad abitare le due Montagne e le pianure intorno ad esse. Prima riapparirono gli uccelli, poi le creature dei boschi. Infine, nella Sua misericordia infinita, il Creatore permise agli uomini di tornare ad abitare i luoghi che avevano selvaggiamente devastato.  Ma le due terre rimasero separate per sempre. 
Terminato il loro compito, le due divinità si presentarono timorose al cospetto del loro Creatore. Sapevano di meritare una giusta punizione per avere disobbedito.
Nella Sua sconfinata saggezza, Egli sentenziò che, se era vero che la loro disobbedienza era da punire, era altrettanto vero che per secoli esse avevano sopportato di vedere distruggere ciò che avevano di più caro senza intervenire, ubbidendo alla Sua volontà. E che se alla fine avevano disubbidito, era per l’immenso amore che senza dubbio provavano per quella Terra. 
Decise quindi che per punizione esse non avrebbero mai più potuto influire sul male scaturito dalle decisioni degli uomini, ma sarebbero potute restare a godere delle meraviglie, uniche al mondo, che la natura offriva nella Terra da loro tanto amata. Concesse loro di aiutare, se avessero voluto, gli uomini che agivano in favore del bene. Chiarì che non avrebbero potuto favorire il bene, ma solo chi, fra gli umani, avrebbe scelto di praticarlo. Inoltre avrebbero mantenuto intatto il loro potere sulle restanti creature. 
Lo Spirito dei Boschi si ritirò ad ovest, sulla cima della grande Montagna che svetta visibile da ogni punto dell’Antica Terra, e manifesta ancora oggi il suo malumore sbuffando fumo ed eruttando lava e lapilli. 
La Fata delle Acque risiede in fondo al mare, nello Stretto. A volte si palesa agli uomini, bonaria, con affascinanti giochi d’acqua in superficie, o con magiche illusioni ottiche. 
Entrambi amano ancora alla follia l’Antica Terra, molto più di quanto abbiano mai dimostrato o dimostrino di amarla gli uomini. A prescindere dai suoi abitanti, quali che siano o come si comportino.
© 2018 Pasqualino Placanica (Tutti i diritti riservati)

sabato 18 agosto 2018

Ciao Giovanni, come stai?

Stamattina ho incontrato un amico che non vedevo da tempo, anni. L'ho visto da lontano, al supermercato, ed ho notato che anche lui mi guardava incerto. 
Gli ho sorriso e immediatamente lui ha alzato una mano in segno di saluto. Ma non ha sorriso. 
Mentre mi veniva incontro ho pensato che qualcosa non andava. Gli ultimi anni ed in particolare gli ultimi mesi sono stati per me portatori di tristi realtà con delusioni annesse su fatti e persone, che hanno lasciato una ferita difficilmente rimarginabile e di cui comunque rimarranno cicatrici indelebili. Per adesso, e credo ancora per tanto tempo se non per sempre, sono sempre sul chi va là, attento e timoroso verso chiunque e qualunque novità si affacci nel panorama della mia vita.
Per cui alla reazione imprevista del mio amico mi ha colto un senso di colpevole disagio, come se potessi essere io stesso ai suoi occhi la causa della sua palese tristezza. Forse ingiustificato disagio. Forse infondato disagio. Disagio da affrontare comunque. 
- Ciao Giovanni. Come stai?
Ci stringiamo la mano, lui aggiunge la sinistra alla stretta coprendo le due mani unite; non ce l'ha con me, anzi è contento di vedermi. 
- Male.
Gli occhi gli si riempiono di lacrime. 
Che gli dico?Ci pensa lui: 
- È morta mia moglie, sono rimasto solo. 
Che gli dico?
- Quattro mesi fa, se ne è andata all'improvviso. Adesso non so più cosa fare, la mia vita è cambiata, niente di quello che era prima ha più un senso.
Che gli dico? 
Vi risparmio la descrizione delle solite cazzate che si dicono in questi casi e che ho pedissequamente snocciolato come un cretino. Il mio amico ha capito che non ero a conoscenza, ha capito che non sapevo cosa dire, che avrei voluto dirgli tante cose. 
Gliel'ho visto negli occhi velati di lacrime. 
Dopo qualche minuto ci siamo salutati con un abbraccio, lui è andato via con il suo peso sulle spalle, io sono rimasto fermo a pensare. 
Perché vi racconto questo? Non c'è un motivo particolare, ogni tanto mi viene la voglia di raccontare qualcosa di ciò che mi accade. Ma non sempre, continuamente. Ogni tanto. FA BENE A ME.

© 2018 Pasqualino Placanica (Tutti i diritti riservati)

venerdì 23 febbraio 2018

OMAR e il Popolo Nobile

Bene, che cosa ci serve per raccontare una favola?
Per prima cosa abbiamo bisogno di sapere dove siamo . Ci serve una bussola; la bussola indica il nord, sapendo dov’è il nord sappiamo dove sono gli altri punti: sud, est, ovest. Se la usiamo sappiamo dove siamo, se la teniamo in tasca possiamo andare a Dappertutto. Dappertutto non vuol dire in qualsiasi posto. Dappertutto è un posto dove avvengono cose magiche. Non serve la bussola, per andare a Dappertutto. Poi ci serve qualcosa per sapere in che epoca viviamo; abbiamo un calendario. Il calendario serve a misurare i giorni, i mesi, gli anni, ci dice in che giorno, mese e anno siamo, e che giorno della settimana è: lunedì, martedì, mercoledì... ma non tutti funzionano solo al presente. I calendari normali forse, ma i calendari delle favole non sono così. I calendari delle favole possono portarci indietro nel tempo. Oppure, se li teniamo chiusi, ci possono portare in un luogo senza tempo, dove esistono le fate, i folletti, le creature magiche. Voi dove volete andare, indietro nel tempo, oppure in un luogo senza tempo, con le fate, i folletti ma attenzione, anche con le streghe cattive? Ci potrebbero essere anche le streghe cattive e i draghi. Non vincono mai, le streghe cattive, ma ci provano lo stesso a fare del male alle principesse. I draghi muoiono sempre alla fine, ma prima si mangiano un bel po’ di cavalieri, e se gli capita anche qualche bambino, ma di quelli della favola, non certo voi.... a meno che non vogliate entrare anche voi nella favola. No, meglio di no....
Torniamo indietro nel tempo?
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Omar e il popolo nobile
Tanto tanto tempo fa la terra era un unico reame in cui i sudditi erano tutti nobili e ricchi: re, regine,  principi e principesse, duchi e baroni.  Era governata da un giovane povero, tanto povero che la sua casa era fatta di canne e fango. Si chiamava Omar.
Il Creatore aveva disposto, dopo avere creato la terra e gli uomini, che fossero tutti ricchi e non avessero bisogno di niente; solo uno, con la sua sposa, avrebbe dovuto soffrire per il bene degli altri. Per governarli doveva essere diverso da loro, quindi povero, ma in compenso gli aveva concesso la felicità del focolare domestico.
Così Omar governava felicemente insieme alla sua sposa, Shamira, anche lei povera; ogni giorno andava a lavorare nei campi dei suoi sudditi e guadagnava quel poco che gli serviva per vivere felice insieme alla sua sposa. I suoi sudditi avevano tutto quello che serviva loro, e anche di più. Cavalli, soldati, servitori (ma anche i servitori e i soldati erano nobili e ricchi, solo un po’ meno dei loro padroni), cibo in abbondanza; non dovevano lavorare, non avevano niente di importante da fare.
Per questo, non avendo niente da fare, impegnavano il tempo per litigare tra di loro. Ogni scusa era buona, per litigare. “Il mio cavallo è migliore del tuo!” – “Mia moglie ha un vestito più bello di quello di tua moglie!” – “Io ho più soldi di te!”... E litigavano di brutto, al punto che ogni giorno Omar, che li governava ma non era il Re perché loro erano tutti nobili e lui no, era costretto ad intervenire per farli smettere.
Ma Omar non aveva soldati, perché era povero, i soldati li avevano i suoi sudditi. Lui governava con la forza più potente del mondo; una forza che se usata bene non ha rivali: la ragione. Omar ragionava, chiamava i suoi sudditi presso la sua casa e spiegava loro perché non dovevano litigare. Ragionando stabiliva chi aveva ragione e risolveva sempre i litigi; ma non dava mai tutta la ragione a uno solo perché sapeva che la ragione, quando due litigano, non è mai tutta da una parte mentre spesso può accadere che entrambi i litiganti abbiano torto. I sudditi ricchi non potevano opporsi, perché loro non ragionavano.
Qualche volta provavano a ribellarsi, e a mandare i loro soldati contro Omar, ma lui appena li vedeva parlava loro e, sempre ragionando, li rimandava indietro senza che fosse stata lanciata una freccia. 
In verità un aiuto lo aveva: su una montagna vicino alla casa di Omar abitava un potentissimo Mago,  Jamar. Jamar era un Mago buono, ogni tanto interveniva per aiutare Omar a risolvere i problemi.
E così fu per tanto tempo, Omar e Shamira vissero insieme poveri e felici. 
Un solo cruccio, ebbero: non poterono avere figli. Quando Omar si fece troppo vecchio e stanco si recò dal Mago Jamar, chiedendogli consiglio: 
Tra poco io non ci sarò più, non ho figli, chi governerà la terra dopo di me?” 
Era un problema serio. Jamar si recò di persona a parlare con i sudditi di Omar, chiedendo che concedessero un bambino ed una bambina perché potessero essere destinati a divenire governanti della terra al posto di Omar e Shamira.
Non ci fu niente da fare: nessuno dei sudditi fu disposto a dare un figlio o una figlia per governare, perché la condizione era che divenissero poveri. Jamar tornò sconsolato da Omar, preoccupato per il futuro della terra: 
Appena non ci sarai più tu, i tuoi sudditi saranno liberi di litigare ed in breve sulla terra non ci sarà più nessuno, si uccideranno tutti tra di loro.
Per l’ennesima volta Omar usò la sua potente arma, quella che chi è accecato dall’avidità non può avere: la ragione. 
Bene, visto che la terra deve essere governata a qualunque costo, e che nessuno lo vuole fare se deve essere povero, allora farai in modo che chi governa diventi ricco.” 
Non può essere! Tra chi governa e i suoi sudditi ci deve essere differenza, non possono essere tutti uguali.
 “Infatti” 
disse Omar 
Farai in modo che chi governa sia ricco più del più ricco dei sudditi di adesso. E tutti gli altri, li renderai poveri, così la differenza sarà mantenuta, anche se all’inverso. Non ne saranno contenti, ma è per il loro bene.
E così, dopo qualche tempo, alla morte di Omar e Shamira, che morirono felici insieme dopo una intera vita trascorsa in armonia, Jamar fece un potente incantesimo: di colpo tutte le ricchezze del popolo divennero di proprietà di uno solo e della sua famiglia, e tutto il popolo divenne povero. Il nuovo governante mantenne il titolo che aveva già di Re, solo che era l’unico Re rimasto, visto che gli altri erano diventati poveri. Jamar ebbe un ultimo gesto di pietà verso il genere umano, prima di ritirarsi per sempre sulla sua montagna, nauseato: cancellò dalla mente del popolo il ricordo del passato, pensando così di non farlo soffrire.
Ma le cose non andarono come pensava: il Re rimase quello che era, avido e ottuso, e i sudditi, che si ritrovarono poveri e non vi erano abituati, iniziarono a litigare tra di loro e con il Re, il quale però non aveva l’arma della ragione, né l’aiuto di Jamar.

E lo fanno ancora adesso.  

© 2014 Pasqualino Placanica (Tutti i diritti riservati)

domenica 18 febbraio 2018

Mimmo Musitano.



Che il ragazzo fosse promettente, il maresciallo Tondo lo sapeva; anche per questo aveva forzato la mano per farlo assegnare direttamente alla sua squadra. Ma che potesse manifestare fin da subito le caratteristiche dell’investigatore nato, non se lo aspettava. L’occasione giunse presto. Qualche mese dopo l’arrivo di Mimmo a Reggio, la squadra del maresciallo fu chiamata ad intervenire sul luogo di un omicidio. Durante la notte, in località Campisi sulle colline a nord della città un uomo venne ucciso in un agguato. Il brigadiere Versace, Mimmo ed un appuntato che erano di turno a quell’ora, si misero in auto per  recarsi subito sul posto.
Durante il viaggio l’appuntato relazionò sull’accaduto.
- Circa un’ora fa a Campisi c’è stato un agguato. Un morto. Sembra che non ci sia stato scontro, lo hanno sorpreso mentre scendeva dall’auto. Da quello che risulta dai documenti si tratta di uno del posto, Antonio Ranieri, cinquantacinque anni, che abitava nella strada in cui è stato ucciso. 
-Il nome non mi dice niente. Si tratta di un pregiudicato? 
 Chiese Versace.
-I colleghi che sono intervenuti per primi non lo conoscono. Al momento c’è una nostra pattuglia che sta presenziando, il giudice istruttore “sembra” che si stia recando sul posto. Da quello che hanno riferito via radio si tratta di una famiglia molto numerosa e conosciuta in paese, qualcuno dei componenti ha precedenti penali ma non la vittima a quanto sembra. E abitano quasi tutti in quella traversa, che porta appunto il nome della famiglia. Traversa Ranieri.
-Speriamo che non si tratti dell’inizio di qualche faida, allora.

Mimmo ascoltava senza dire una parola tutto quello che dicevano i due colleghi, e contemporaneamente prestava attenzione ai luoghi che stavano attraversando. Percorsa per qualche chilometro la strada nazionale verso nord, avevano imboccato una strada laterale, in salita in direzione monti. Dopo una ventina di minuti la strada si restrinse al punto tale da non permettere il transito di più di un veicolo per volta. Dovettero affrontare diverse curve a gomito, di cui una era talmente stretta che, per superarla, il brigadiere dovette compiere una manovra a marcia indietro e poi ripartire. Ad un certo punto la strada si allargò leggermente e iniziò a costeggiare sulla destra un torrente. Erano giunti nel centro abitato di Campisi.
- Quattro case e un forno. 
Disse Versace.
In effetti l’abitato si sviluppava sulla sinistra della strada, in poche traverse che finivano cieche contro il fianco della collina. Dall’altro lato della strada un muro a strapiombo sul torrente che scorreva una decina di metri più sotto. Nel punto più largo, una panchina sotto un ulivo ultracentenario e una fontana con acqua corrente cercavano di dare al posto la dignità di piazza del paese. Ma non era una piazza e quello non era un paese. Era un agglomerato di case, in buona parte risalenti a poco prima la seconda guerra mondiale, sviluppatosi intorno ad una istallazione militare. Si poteva vedere, sulla cima della collina, un centinaio di metri sopra le case, una grossa torretta dismessa. Dietro la torretta c’era il fabbricato di un’intera postazione antiaerea, famosa  a Reggio per l’attività svolta durante i bombardamenti nell’ultima guerra. La “Sorbara”, era chiamata quella batteria, dalla località in cui era collocata che prendeva a sua volta nome dalle numerose piante di sorbo che crescevano in zona. Da quella postazione erano stati abbattuti diversi velivoli, americani e inglesi. Proseguendo oltre, la strada si restringeva nuovamente, e spariva dietro una curva. La traversa Ranieri era la più grande. Terminava cieca, con un grande muro in pietra che faceva da contenimento alla base della collina. Era particolarmente curata, sui cigli della strada asfaltata non c’era erba né cartacce o rifiuti. In fondo, vicino al muro in pietra, coperto da un lenzuolo, il corpo della vittima. I presenti affermavano di avere udito due colpi di fucile da caccia. Almeno uno aveva colpito a morte l’uomo mentre scendeva dalla macchina dopo avere posteggiato. L’auto era posizionata parallela al marciapiede, il corpo era a terra vicino alla portiera lato guida. Una delle scariche aveva perforato la carrozzeria dell’automobile, i buchi dei pallettoni erano visibili a distanza nonostante stesse ancora albeggiando. A lato, seduta sul gradino del portone di una casa, una donna piangeva disperata, accanto a lei altre persone, uomini e donne. Mentre il brigadiere parlava con i colleghi che si trovavano già sul posto, Mimmo si guardò intorno. C’erano solo le prime tre lampade dell’illuminazione stradale efficienti all’entrata della strada. Le altre quattro, in fondo, avevano tutte le lampadine rotte. Cominciò a percorrere la traversa, controllando i nomi dei residenti sulle porte. Nella maggior parte dei casi il cognome era Ranieri.
Chiese ad uno dei colleghi notizie sulla strada principale, se proseguisse verso qualche altro centro abitato. La risposta fu negativa. Dopo la curva, in poche decine di metri moriva contro il fianco della collina. Una volta c’era un sentiero che portava sulla cima, ma era franato da tempo. In pratica, percorrendo quella strada si poteva andare solo a Campisi. E dalla stessa strada si doveva tornare indietro per andare via.
 Nel frattempo giunse un’auto di servizio. Ne scesero il maresciallo Tondo e altri due uomini, di cui uno con una borsa in pelle e aspetto da intellettuale. Tondo dapprima si avvicinò a Versace, che lo informò sommariamente dell’accaduto poi, notando che Mimmo era tutto preso dalle sue riflessioni, lo chiamò.
-Che c’è, dimmi cosa stai pensando.
-Hai notato le lampadine in strada? Le ultime sono state rotte a sassate.
-Beh, non sarebbe la prima volta che qualche teppista con la fionda si diverte a prendere di mira i lampioni.- Disse Tondo. Ma senza convinzione, aveva capito che Mimmo aveva già una sua idea. Versace si avvicinò ai due incuriosito.
-Certo, non sarebbe la prima volta, ma qui è avvenuto un omicidio. E hai visto com’è tenuta in ordine la strada, non c’è una carta per terra.  Se ho capito bene la traversa è abitata quasi interamente da famiglie che sono in stretto legame di parentela tra di loro e considerano la strada come la corte di servizio delle loro abitazioni. Perciò nessuno dei giovani del posto si sognerebbe mai di danneggiare casa sua per puro divertimento, né si può pensare ad una spedizione di vandali forestieri in un posto così isolato. Secondo me sono state rotte per agevolare l’agguato.
Il maresciallo lo guardava compiaciuto.
-Potrebbe essere. Ma saperlo ci serve a poco… 
Disse Versace.
-Aspetta- lo interruppe Mimmo ormai preso dalla foga del ragionamento.- Hai visto com’è difficile arrivare qui? Sia per venire che per andare via occorre per forza percorrere per almeno due chilometri la stessa strada. Che è talmente stretta che basterebbe anche una Ape a tre ruote ferma, per impedire il passaggio. Ora, mi sembra difficile che qualcuno venga  a piedi in un posto del genere a commettere un omicidio, in fondo ad una strada chiusa, abitata solo da parenti della vittima che potrebbero intervenire anche rispondendo al fuoco. Ma se fossero venuti con qualche mezzo di trasporto, come avrebbero potuto essere sicuri di trovare l’unica strada libera al momento della fuga? 
Si bloccò di colpo, sentendosi osservato.
-Continui. 
Gli disse l’uomo con la borsa in pelle  che, dietro di lui, lo ascoltava interessato da un po’.
-Il dottore Labate è il magistrato di turno. 
Disse Tondo, divertito. Mimmo non fece una piega, ormai era in piena “trance” investigativa.
- Bene, secondo me chi ha sparato è ancora qui, nascosto in una di queste case, che aspetta che si calmino le acque.  
Indicò le abitazioni vicine, davanti alle lampade rotte.
-Perché proprio in una di queste? 
Chiese Tondo, che aveva già intuito la risposta ma era affascinato dal ragionamento.
-Perché una volta sparato, avrebbe avuto troppo poco tempo per allontanarsi superando le tre lampade funzionanti senza correre il rischio di essere visto e magari riconosciuto. Se fosse dovuto andare oltre avrebbe rotto anche quelle. Due soli colpi di fucile, e dapprima, per almeno un minuto nessuno sarebbe uscito a vedere. Giusto il tempo per rientrare nel buio da dove era uscito.
-Ma trovare rifugio presso dei vicini di casa mi sembra complicato. Se qua sono tutti parenti… Obiettò Versace
- Non credo che si tratti di un omicidio di mafia. Se guardi bene, l’arma che ha sparato è un normale fucile da caccia, non a canne mozze. La rosata dei pallettoni sulla portiera dell’auto è troppo chiusa per essere stata sparata da una lupara. È stata sparata dall’altro lato della strada, che è larga, direi, al massimo dieci metri. Quindi tra tiratore e bersaglio, tutto compreso, ci saranno stati più o meno sei metri. Sparata da quella distanza, una rosata di lupara sarebbe molto più ampia.
-Il ragionamento del suo collega fila perfettamente. 
Disse il dottore Labate rivolto al maresciallo Tondo. 
-Mi sembra plausibile; certo non è detto che sia andata così, ma ci sono buone probabilità che abbia colto nel segno. Adesso le dico cosa faremo. Intanto faccia venire altri uomini per chiudere la traversa ed essere sicuri che nessuno entri o esca dalle case senza essere visto. Attendiamo la scientifica, che dovrebbe giungere a breve, per farci confermare il tipo di arma usata. Se l’impressione del nostro amico sarà confermata, autorizzerò immediatamente la perquisizione di tutte le abitazioni della traversa. Badate bene che se ci sarà la perquisizione dovrà essere quasi contemporanea in tutte le abitazioni. Se è vero che qua sono tutti parenti potrebbero essere complici, e si potrebbero passare l’arma da qualche finestra sul retro o per qualche altra via. Nel frattempo cerchiamo di non fare capire ai presenti le nostre intenzioni. Sospendete la raccolta delle deposizioni, ammesso che ce ne siano. 
Il maresciallo disse a Versace di occuparsi dei rinforzi. Poi rivolgendosi all’appuntato gli ordinò di recarsi presso il commissariato di zona, e di chiedere l’elenco delle denunce di armi in carico ai residenti del posto. Non sarebbe stato un elenco esaustivo, ma comunque utile. Sempre che si trattasse di un’arma registrata.
La scientifica confermò subito che non si trattava di un’arma a canne mozze, ma di un fucile da caccia a due canne presumibilmente calibro 16. Una doppietta, forse, o un sovrapposto.
Mimmo ricordò la doppietta a cani esterni che aveva suo nonno paterno. Cacciatore indomabile, ogni occasione era buona per imbracciare il fucile e qualche volta, da bambino, lo aveva portato con sé, in estate. Non gli piaceva la caccia come non gli piaceva il mercato del bestiame. Ma sparare sì, quello gli piaceva allora come adesso. Gli piaceva l’odore del fucile lubrificato, della polvere da sparo, il leggero odore di bruciato che gli restava sulle mani dopo aver sparato con la doppietta del nonno. Non se le voleva lavare dopo, quelle mani, tanto gli piaceva sentire l’odore della polvere da sparo esplosa. Sparava, sì, ma sempre contro bottiglie vuote, oppure contro qualche pitta di ficodindia. Ai bersagli inermi preferiva quelli inerti, senza vita. Chissà che fine aveva fatto quella doppietta, dopo la morte del nonno. Tornò alla realtà, e poco più in là vide il nonno seduto su un gradino, con la stessa birritta grigia in testa, lo sguardo rivolto verso terra, le mani grosse e  piene di calli appoggiate sulle ginocchia. Per un attimo. Poi realizzò che non era possibile. Ma la figura che vedeva era reale. Si avvicinò, e il vecchio alzò la testa. Senza dire una parola gli fece segno di sedersi a fianco a lui. Sotto quella birritta grigia, le sopracciglia nere e due occhi piccoli, contornati da profonde rughe scavate dal tempo. Mimmo si sedette come se non avesse niente da fare, se passasse da lì per caso.
- Voi siete sbirro. 
Disse il vecchio, senza guardarlo in faccia.
- Sono della Polizia. Anche se sono in borghese.
Rispose Mimmo, che non la prese come un’offesa. Come avrebbe potuto offendersi con il nonno?
-Voi siete sbirro di quelli veri.
 Precisò il nonno. 
Sapete qual è la peggiore disgrazia che possa capitare a un padre? 
Continuò.
-Ma perché dite che sono uno sbirro vero? 
Mimmo ignorò la domanda.
-Nessun padre dovrebbe seppellire il proprio figlio.
 Sembrava un dialogo tra sordi. Mimmo intuì che doveva lasciarlo parlare, a prescindere da quello che ne avrebbe ricavato.
Il vecchio prese dalla tasca della giacca un pacchetto di Nazionali senza filtro, vi batté di sotto con un dito, dal lato chiuso per fare uscire una sigaretta e lo porse a Mimmo che rifiutò con un gesto di diniego.  La prese lui e se l’accese affondando il viso nell’incavo delle due mani, quindi alzò il capo e volse lo sguardo verso di lui. L’odore del tabacco bruciato andò ad aggiungersi ai tanti aromi che il nonno emanava, riportando nuovamente indietro nel tempo il giovane.  Incastonati in quel volto arso dal tempo, gli occhi neri del vecchio sembravano come quelle finestre con i vetri a specchio in cui da fuori ci si può specchiare mentre chi sta dietro vede tutto senza essere visto.
-Vi ho ascoltato, prima. Siete giovane, ma quelli più vecchi di voi vi ascoltavano e vi hanno dato ragione. Voi siete sbirro vero.
-E voi, invece, che ne dite? 
Chiese Mimmo. Sperava di ottenere qualche indicazione utile sull’accaduto.
-Io ho seppellito mio figlio.
Disse con gli occhi lucidi. Dietro il vetro delle finestre a specchio si accese una luce per un attimo lasciando intravedere qualcosa. Ma fu solo un attimo, il vecchio si asciugò subito gli occhi con un fazzoletto e i vetri tornarono ad essere impenetrabili.
-Se fosse vivo, adesso mio figlio avrebbe quarantanove anni . E’ nato lo stesso giorno in cui mi sono sposato, l’anno dopo.
Quindi era il compleanno del figlio e l’anniversario del suo matrimonio. Il cinquantesimo, anniversario. Ma la nonna dov’era? Non osava chiedere.
-Voi come vi chiamate, giovanotto?
-Mimmo, Mimmo Musitano.
-Io sono Filippo Ranieri, e questa è la mia casa.
Si alzò in piedi e indicando la porta dietro di lui,invitò Mimmo ad entrare. Entrarono direttamente in cucina. Un tavolo di legno, due sedie con la seduta in corda, un lavandino in pietra grezza con un solo rubinetto. In un angolo un cucinino a due fornelli sopra un tavolino, a fianco la bombola del gas. Uno stipo a quattro ante nell’angolo opposto. Non c’era niente appeso al muro, neanche un calendario. Troppo essenziale, non c’era la mano di una donna. Filippo Ranieri aprì uno sportello dello stipo e tirò fuori un recipiente di metallo e un macinino. Aprì il recipiente, prese un pugno di chicchi di caffè e li mise dentro il macinino. Iniziò a girare la manovella, e qualche secondo dopo le narici di Mimmo riconobbero un altro odore dimenticato.
-Non avete voluto la sigaretta, ma il caffè lo dovete accettare!-
Annuì sorridendo, non poteva rifiutare e comunque ne aveva bisogno, non dormiva da più di 24 ore.
Macinato il caffè, il vecchio lo versò nel filtro della caffettiera, poi riempì la caldaia con l’acqua del rubinetto. Preparò la caffettiera, la mise sul fornello acceso, e si sedette di fronte a Mimmo. Si tolse la birritta dalla testa, poggiandola sul tavolo capovolta e riprese a guardare in viso il giovane da dietro i suoi occhi impenetrabili. Mimmo fissò la sua fronte, adesso scoperta: una serie di profonde rughe, alcune verticali, altre orizzontali la solcavano simili alle gole d’Aspromonte che l’acqua aveva scavato nella roccia scorrendovi per millenni. E forse era proprio così, forse erano state scavate dal sudore che era sceso copioso per tutta la vita da quella fronte.
L’odore del caffè che usciva dal beccuccio della caffettiera fece girare il vecchio. Spense il fuoco, tolse la caffettiera dal fornello e la poggiò sul tavolo, sopra un sottopentola in legno. Aprì un altro sportello dello stipo e prese due  tazzine con i piattini in porcellana bianca e oro e una zuccheriera con il bordo ed il manico dorati; da un cassetto prese due cucchiaini d’argento. Poggiò tutto sul tavolo in perfetto ordine e versò il caffè fumante.
Sì, lui era lo sbirro, quello che doveva fare le domande, ma come si fa a fare domande ad un vecchio di età indefinita che ti invita in casa e ti offre il caffè di sua iniziativa? Decise di aspettare. Mentre beveva il caffè, Mimmo notò che lo sportello da cui il vecchio aveva preso le tazzine era ancora aperto. Dietro il servizio da caffè c’erano due portafotografie. Appena ebbe terminato, il vecchio poggiò la tazzina sul tavolo e si alzò bruscamente.
- Aspettate qua! 
Disse, e sparì dietro la porta che dava sulla stanza accanto. Mimmo non seppe resistere. Si alzò e si avvicinò allo stipo, per guardare da vicino le due fotografie. In realtà erano tre. In una cornice c’era il ritratto di una bella donna, giovane, capelli neri raccolti a tuppo, sorridente. Nell’altra c’erano due foto affiancate; in una, un giovane in divisa con le mostrine dell’artiglieria, a mezzobusto. Mimmo notò che il militare aveva una forte somiglianza con il vecchio. L’altra foto era una bellissima immagine di serenità familiare: padre, madre ed un bambino sorridenti, seduti in terra sull’erba. La donna era sicuramente quella della fotografia, l’uomo sembrava essere Filippo Ranieri da giovane.
-Siamo io, mia moglie e mio figlio Peppe.-
Il ritorno del vecchio lo distolse dalle sue riflessioni. Tornò a sedersi indietreggiando senza voltarsi, con il capo chino vergognandosi per avere violato l’intimità del suo ospite.
- Mio figlio è morto a ventitre anni. Mia moglie mi ha lasciato solo un anno fa. Sapete, era un bel ragazzo, mio figlio Peppe. 
Bussarono alla porta. Il vecchio non si mosse. Mimmo si alzò e aprì. Era Versace, i suoi colleghi avevano iniziato le perquisizioni. Il brigadiere capì che poteva aspettare, visto che comunque Mimmo era dentro. Il giovane richiuse la porta e tornò a sedersi.
-Nel quarantatre, quando iniziarono i bombardamenti, mio figlio era qui, in licenza. Questa casa fu mitragliata più di una volta, perché dietro, sulla collina c’era la batteria antiaerea della Sorbara che sparava contro gli aerei alleati. Quando finì la licenza, Peppe non volle tornare al Corpo. Non aveva paura della guerra, voleva stare con me e sua madre, non ci voleva lasciare soli. E si fece disertore. Non ci furono problemi, all’inizio, perché i soldati della Sorbara qui non venivano mai. Eravamo tutti parenti, nessuno parlava, tutti aiutavano. Poi arrivarono i tedeschi, e una pattuglia si accampò qua da noi.-
Filippo Ranieri era rilassato, adesso. Le rughe della fronte si erano distese, quasi scomparse.
- Peppe se ne dovette andare. Salì in Aspromonte, ma ogni tanto, di notte, scendeva in paese. Tutto continuò così, fino a quando non arrivò il “capitano”.-
Pronunciò la parola capitano con disprezzo. 
Il capitano, l’eroe di guerra, l’uomo d’onore. Era venuto in licenza, il figlio di mio cugino Ciccio. Quando seppe che mio figlio era disertore venne da me e mi disse che Peppe si doveva presentare, che era ancora in tempo e che si sarebbe interessato lui per aggiustare la cosa. Lo dissi a mio figlio, ma non si fidò e rimase latitante. Ma l’eroe non poteva lasciar perdere e si mise a spiare. In seguito disse che lo faceva per potergli parlare direttamente, per convincerlo, ma una notte, quando Peppe arrivò lo aspettavano i tedeschi, insieme al capitano. Lo catturarono e la mattina dopo lo fucilarono senza processo. Proprio là fuori, contro il muro dove finisce la strada.
Mimmo chinò il capo. Cercò d’immaginare come si poteva sentire un padre che ogni giorno, per anni ed anni, uscendo di casa vedeva per prima cosa il luogo dov’era stato giustiziato suo figlio.    
Quando alzò il capo vide nuovamente suo nonno, con in mano una doppietta a cani esterni con la culatta aperta. Sobbalzò, dapprima, poi capì. Il vecchio gliela porse tenendola dalle canne; l’odore della polvere da sparo esplosa invase le sue narici.
-Perché? Perchè adesso, dopo tanto tempo?
Chiese Mimmo.
-Quando morì mia moglie, dapprima pensai che ormai non avevo più motivo di vivere. Ma quel muro ogni giorno mi parlava e mi metteva davanti a una scelta. Dovevo scegliere: o lui, o io. Ho scelto lui. Oggi era il giorno giusto, e adesso quel muro non parla più.
Disse Filippo Ranieri, poi tacque.
Le rughe sulla fronte del vecchio erano ancora più profonde di prima, e gli occhi, che mentre raccontava si erano schiariti, adesso erano ancora più impenetrabili, e contemporaneamente penetranti.
Rimasero così, in silenzio, Mimmo ad esplorare il viso del vecchio, il vecchio ad esplorare l’anima di Mimmo.
Poi il vecchio parlò:

-Sapete, siete un bravo giovane e somigliate assai a mio figlio. Ho piacere che mi arrestiate voi.



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