decrepite ville abbandonate,
dalle mura tutte crepate
dove ci passa il sole.
Non palazzi provinciali disabitati,
dalle porte polverose,
dalle vetrate colorate,
dalle finestre ferrate,
non più.
Era il 1975, frequentavo la terza media e, traendo spunto da questi versi tratti dalla poesia “Una casina di cristallo” di Aldo Palazzeschi, la professoressa di italiano ci assegnò la stesura di un componimento la cui traccia, dopo avere citato i versi, recitava più o meno così: conosci anche tu un palazzo provinciale disabitato? descrivilo e racconta le tue sensazioni in merito.
Ecco, io descrissi proprio quella meravigliosa casa che ogni sabato pomeriggio, ogni domenica mattina, ammiravo da anni per pochi attimi dal finestrino laterale posteriore della già allora vecchia 500 di mio zio, all’andata e al ritorno dalla consueta battuta di pesca del fine settimana. La descrissi, ricordo, esattamente come l’ho trovata oggi, ne sono certo. Perché, lo so che è incredibile, ma non è cambiata per niente. Anzi ricordo che allora aveva le imposte del balcone centrale leggermente aperte, mentre adesso sono chiuse. Solo qualche ruga, come sul viso di una bella donna sorridente che lentamente avanza nella vita, felice di esistere. Descrissi poi le mie sensazioni, quelle di un adolescente che fin da bambino aveva fantasticato su quella casa che seppur abbandonata ed apparentemente irraggiungibile, stretta tra una collina impervia e la statale 106, sembrava gridare al mondo la sua esistenza, la sua voglia di essere nuovamente. Io la vidi così, come un prigioniero isolato, condannata dall’incuria degli uomini a pagare qualche inconfessabile colpa per un tempo indefinito, ma che non si arrendeva e mai lo avrebbe fatto. E poi raccontai della famiglia che vi aveva abitato, di come viveva, del perché era andata via. Di come immaginavo io, che fosse avvenuto tutto ciò. È incredibile e meraviglioso come possa un’immagine (perché quello era allora, un’immagine) scatenare la fantasia di un bambino, e come quella fantasia rimanga viva per sempre, scolpita nella mente al punto tale che, anche quando quel bambino diventa uomo e l’immagine diventa realtà da toccare con mano, nulla cambi nella sua mente. Vedendo le foto della visita alla casetta blu, un’amica mi diceva che lei forse non riuscirebbe ad entrare, per paura di tradire tutti i sogni che aveva fatto da bambina insieme a sua sorella sedute sul sedile posteriore dell’auto. Non esiste, quel pericolo. La peculiarità dei sogni è proprio questa: non si fanno influenzare dalla realtà. E se poi si sogna di qualcosa che è già magica di per sé, allora non c’è limite, neppure il cielo.
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