(di Gioacchino Criaco)
“Che la colpa è del mare, di questa puzza di pesce marcio che viene ad ammorbarci l’aria dolce di gelsomino”, sentenziò mastro donn’Umberto degli scanzu, una sera che si prendeva il fresco sopra la panchina di legno ai piedi della robinia più grande della piazza.
“Veru è”, assentirono i suoi tre soliti compagni di seduta, e al mattino, uno di loro, si armò di coraggio e si presentò in faccia allo Jonio per protestare. Il mare alzò l’onda, lo ghermì e lo diede in pasto ai pesci.
I reduci piansero l’amico, se ne fecero ragione e continuarono le sedute: l’autunno arrivò, col mastro che si fece del doppio per compensare la mancanza, e dispettoso buttò acqua di nuvola a disturbarne le sieste pomeridiane.
“È il cielo maligno”, ghignò il mastro, e il giorno dopo uno, degli altri due, prima di scendere in piazza salì al piano alto ed espose le sue rimostranze al cielo, e quello per risposta gli diede una spinta, che bastò leggera, e lo precipitò dal terrazzo.
Il mastro fece un elogio magnifico durante le esequie, che pianse tutto il paese, anche quelli di cuore bastardo. Due rimasero in piazza e mastr’Umberto triplicò la sua mole per nascondere la mancanza. Sfidarono un inverno che partì mite e i mali consigli lo nsarvaggirono, e coprirsi non serviva a nulla, “montagna infame”, imprecò il mastro, e l’altro senza aspettare tempo, all’istante si mosse a risalire l’Aspromonte, gli disse che non aveva diritto di portare il suo gelo a tocco di mare. E la montagna gli rise in faccia e lo passò ai lupi.
Il mastro si nutrì di un dolore che lo gonfiò da diventare quattro in uno, e fortuna che aveva la panchina tutta per se, per riposare.
Che in Calabria sono bravi come da nessuna altra parte ad armare guerre, per farle fare agli altri. E il problema che genera ogni problema è solo d’immagine. C’è una brutta nomea alla base di ogni dramma calabrese, “che se se ne parlasse bene, invece, tutto filerebbe liscio”.
Perché davvero, se si mettono da parte le male chiacchiere tutto funziona. Solo che tutto funziona a favore di quelli che hanno quattro ganghe come mastro donn’Umberto, degli scanzu. Quelli che stanno culo a terra, fuori dalla panchina, non devono lamentarsi, o stanno giù o si vanno a cercare il posto da qualche parte, e se la prendano col mare, col cielo o con la montagna.
O si scelgano un colpevole qualunque, e lo facciano a bocca chiusa, che non ci fossero state le loro malelingue, la Calabria sarebbe un paradiso.